La testimonianza del dottor Federico Barà da Genova

“La mia terra, l’isola, la Sicilia, è una terra estrema, che ha sempre, da una parte, persone non felici socialmente, che, spinte dalla necessità, sono state portate ad emigrare…”

Mi piace iniziare la mia riflessione da queste parole di Vincenzo Consolo. Non so se definirla “infelicità sociale” ma, certamente, ciò che mi ha spinto a lasciare la Sicilia, ormai dieci anni fa, è stata una sensazione di oppressione, quasi di “soffocamento”; la convinzione che non sarei potuto essere o non avrei potuto fare ciò che volevo, senza scendere a compromessi, anche soltanto con la mia coscienza, senza dovermi adattare ad una mentalità che sentivo stretta.

Un’esperienza universitaria faticosa, vissuta male, e il bisogno di cambiare aria, almeno per un poco, magari per tornare una volta superate le mie difficoltà. È nata così, senza molti ragionamenti e abbastanza in fretta, la decisione di andare fuori. Improvvisa e rapida, perché forse non ci si può permettere di pensare troppo a ciò che si lascia: la famiglia, le amicizie costruite nel tempo, il bagaglio di esperienze inestimabili fatte e condivise in tanti anni…

In Liguria non ho trovato un posto perfetto o migliore (anzi dopo l’illusione iniziale, mi sono reso conto che, “i mali e le bellezze italiche”, lontani dall’avere il marchio DOCG, si ritrovano a qualsiasi latitudine e longitudine, solo diversamente declinati!), ma ho trovato la libertà da certi condizionamenti, che mi ha permesso di andare avanti e realizzare gli obiettivi che mi ero posto: il percorso formativo nella Scuola di specializzazione in Geriatria, la possibilità di iniziare a lavorare, dal giorno dopo la specializzazione, esattamente in quello che sentivo essere il mio campo.

Da cinque anni faccio il Direttore Sanitario di una RSA per anziani a Bogliasco, un Comune alle porte di Genova: è una Struttura che accoglie quarantasette anziani per lo più ultranovantenni, lungodegenti parzialmente o totalmente non autosufficienti, per i quali in genere i principali obiettivi terapeutici consistono nel mantenimento, per quanto possibile, delle autonomie residue; nella gestione delle polipatologie croniche da cui sono affetti e nell’accompagnamento in quella che è ormai l’ultima fase dell’esistenza trascorsa. Sempre da cinque anni collaboro con un’altra residenza sanitaria a Genova, e completo il mio lavoro ritagliandomi uno spazio per l’attività domiciliare. È la professione che mi piace, la mia vocazione direi, che mi permette di prendermi cura dell’uomo che si trova in quella fase della vita nella quale, alla fragilità fisica e psicologica, si aggiunge spesso una fragilità sociale che ci trova ancora fortemente impreparati dal punto di vista culturale.

In questo cammino non ho fatto fatica ad inserirmi, senza dover chiedere mai niente a nessuno: ho trovato sempre colleghi con cui mi sono trovato bene, “superiori” che mi hanno apprezzato, pazienti e familiari dai quali mi sento stimato.

Nel frattempo il matrimonio con Floriana (anche lei di Campofelice ed “emigrata” come me) nel 2011, e il dono dei figli Stefano, Cecilia e Mattia, che qui sono cresciuti e si sono inseriti, giorno dopo giorno, rendendo poco alla volta più grande la distanza con la nostra terra natale e sempre più remota la possibilità di tornare. Insieme abbiamo ritrovato una parrocchia nella quale camminare e dove continuare a vivere la nostra Fede, abbiamo conosciuto tante persone disponibili nei momenti di inevitabile bisogno…insomma, abbiamo vissuto quello che definirei un inserimento socialmente riuscito.

Eppure, nonostante tutto, nell’intimo sento serpeggiare sempre una sottile inquietudine. È difficile descrivere esattamente ciò che provo: dopo dieci anni non mi sento più solo un ospite della terra che mi ha “adottato”, ma neanche veramente a casa; pur avendo fatto esperienza dell’essere accolto, mi rendo sempre più conto che è difficile ri-creare legami forti come quelli natii; mentre continuo a costruire e provare a realizzare qualcosa di bello (non mi riferisco ad aspetti materiali) da lasciare in eredità ai figli, rimane in me una sorta di “nostalgia indelebile”.

La Sicilia è una terra che ho sempre descritto come dalle grandi contraddizioni, meravigliosa e un po’ crudele, volendo usare espressioni forti. Forse, da “buon” figlio di questa terra, tali contraddizioni le porto tutte dentro in un continuo contrasto interiore: ho sempre sentito le mie origini come una ricchezza, il mio bagaglio culturale come un “qualcosa di più”, che mi ha dato tanto e che spendo nella vita di ogni giorno, qualcosa di cui andare fiero; tuttavia, proprio il rifiuto di certi aspetti della “cultura siciliana” è ciò che mi ha portato lontano da casa. Ho sempre pensato e continuo a credere fortemente che nasciamo cittadini del mondo, viandanti in una terra che non è nostra e nella quale i confini sono soltanto una convenzione; eppure, rimanendo fermo in tale convinzione, mi rendo conto che apparteniamo, con un legame invisibile ma fortissimo, alla terra da cui siamo nati e di cui siamo fatti.

Quando riguardo indietro o intorno mi rendo conto dei tanti, troppi, amici con i quali ho condiviso la mia giovinezza che hanno “dovuto” fare e continuano a dover fare ancora oggi la mia stessa scelta: uno stillicidio che continua a privare la nostra bella Sicilia delle forze migliori (non migliori di quelle di chi resta che sia chiaro, ma migliori nel senso che appartengono a quella fase della vita in cui si è pronti a raccogliere dopo gli anni della semina!). Allo stesso tempo immagino e apprezzo la fatica fatta da chi è rimasto, pensando ai tanti amici che hanno deciso di non arrendersi e restare per costruire, per tentare di cambiare le cose da cambiare, per continuare a portare avanti quelle belle, le tradizioni dei padri come mi piace chiamarle.

Devo dire che oggi non riesco a pensarmi in un posto diverso da Genova, non riesco a considerare la possibilità di tornare in Sicilia senza provare di nuovo, come la prima volta, la stessa sensazione di malessere che mi ha portato a partire. Per quanto la vita ci regali sorprese continue, verso le quali le porte del cuore e della mente devono restare sempre aperte, non credo che la possibilità di tornare indietro possa più realizzarsi. Credo che adesso il mio posto sia qui, che qui continuerò a camminare con determinazione e pienezza, sempre a testa alta ma sempre con un “piccolo” interrogativo nel cuore: e se avessi avuto il coraggio di restare…?!

1 Comment

  • Posted 5 Dicembre 2019 23:36
    by Aurora Rinaudo

    L’eterno dilemma ela stessa spina nel cuore di chi va e di chi resta, l’immutato destino dei nostri padri sin dal secolo scorso, di tanti della mia generazione, ora anche dei ns figli…..e le stelle stanno a guardare. Buona vita caro Federico, sai quanto io ti possa capire, ma la vita e’ una continua scelta e spesso e’dolorosa.

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