Jojo Rabbit è un film fresco di pellicola, ancora nelle sale, per la regia di Taika Waititi, tratto dal romanzo di Christine Leunens Come semi d’autunno. Sgombriamo subito il campo: più che un consiglio è un ordine del medico: va visto. Per sorridere, per emozionarsi, per riflettere. Potrebbe pure essere materiale a supporto di percorsi scolastici legati alla memoria e alla narrazione della guerra, della follia nazista, dell’Olocausto; ancor più oggi, visto che il numero dei negazionisti italiani pare sia drasticamente aumentato.

Al centro della storia c’è un bambino di dieci anni, Johannes “Jojo” Betzler (Roman Griffin Davis al suo esordio) orfano del padre e in casa con la madre Rosie, la Scarlett Johansonn dalle perenni labbra rosse. Accanto a lui l’amico immaginario che un bambino che si rispetti si porta in giro, solo che in questo caso, a riprova del martellante indottrinamento della propaganda nazista, quell’amico è un tantino particolare: è Adolf Hitler, interpretato dallo stesso regista. Maschera comica che fa il vezzo al potere con fare buffonesco, senza dimenticarne fanatismo e razzismo. L’ironia salverà il mondo e una risata seppellirà miti affatto redenti, smontati e rimontati ad altezza bambino.

In mezzo la guerra, la gioventù hitleriana, le amicizie e le dinamiche di gruppo: Jojo non vorrà uccidere un coniglio, divenendo per sempre “Rabbit”.

Deciso a mostrarsi per quello che sente d’essere, soldato e bandiera della Germania nazista, sfida il gruppo brandendo una granata che, lanciata, gli rimbalzerà sui piedi. Esito: rimarrà sfregiato in viso, con una gamba zoppicante e l’appellativo “Rabbit” ancora appeso al collo. Ma tant’è.

La narrazione è farsesca a tratti, ma senza mai sbracare; in punta di piedi si mescolano grandi sentimenti e grandi storie. E in punta di piedi entra in scena Elsa Korr (Thomasin McKenzie) la compagna di classe della sorella deceduta. È ebrea, tenuta nascosta dalla madre in casa sua! Jojo non riesce a crederci: lui ariano, nazista tutto d’un pezzo, che deve spartire la sua casa con un’ebrea. Che lo fa riflettere: denunciarla significherebbe mettere in pericolo la madre e lui stesso. Da lì un crescendo, scena dopo scena, fino alla liberazione e all’ingresso a Berlino degli Alleati: una liberazione fisica della città che segna la fine della Seconda guerra mondiale e che marca la narrazione segnando anche la liberazione di Jojo dalle sue verità.

Alla fine, infatti, Jojo comprenderà bene la vera natura di quell’Hitler lì e lo caccerà dalla finestra con una pedata; scenderà in strada, allora, con l’amica reale, quell’ebrea di cui s’era pure innamorato, e balleranno come avrebbe voluto fare la madre, oppositrice politica, impiccata in piazza ed esposta come monito per tutti. Ai suoi piedi Jojo piangerà: lacrime dure. Uno strappo d’affetti cui si unirà quello del suo comandante e formatore, il Capitano Klenzendorf (Sam Rockwell), che lo salverà a costo della vita. In mezzo il compagno d’avventure, Yorki, un orsetto Yoghi in carne e ossa che renderà tutto quell’inferno una passeggiata di spensieratezza.
Balleranno questi bravi attori; balleranno come gli uomini liberi che sentono la musica e trasferiscono il sorriso. Le tragedie hanno date, nomi, cognomi, luoghi: le si possono raccontare come meglio si desidera. Quel che conta è non dimenticare. Mai.