Al Festival la testimonianza di Paolo. Un concerto di valori. Fede. Sacrificio. Vita. Solidarietà

Il Festival di Sanremo sta spegnendo solennemente le candeline dei suoi 70 anni. È una festa che mette insieme differenti generazioni. In un modo straordinario. Raro. Quasi magico. Come solo la musica sa fare. Tutta l’Italia è unita davanti alla Tv, rimanendo connessa ai social. Gli indici di ascolto da record delle prime due serate ne danno una immediata conferma.

Nel rivedere Albano e Romina, i Ricchi e Poveri, Massimo Ranieri, Zucchero, Gigi D’Alessio, nell’ascolto delle loro canzoni siamo stati sommersi dalle onde della colonna sonora della nostra vita. Tasselli del mosaico del nostro ieri, incollati dalle emozioni, dai ricordi, di canzoni o canzonette che abitano la nostra memoria. Come le poesie che le brave maestre ci davano da imparare. Una sorta di puzzle facile da comporre. Con due medaglie, due facce. Da un lato le nostre storie personali, dall’altro quella della nostra Italia.

Sanremo con i suoi 70 anni ha riportato alla mia memoria una poesia di De Amicis che la nonnina amava spesso ripetermi. È dedicata alla mamma. Un versetto dice :«Mia madre ha sessant’anni. E più la guardo e più mi sembra bella».

Il Festival ha raggiunto il traguardo non dei sessanta, ma dei settanta anni. Dentro il Festival troviamo la musica, la gara, lo spettacolo, la comicità, la satira, il costume. Le polemiche. Talvolta il momento del confronto, della riflessione che ci arriva dal testo di qualche canzone. Da un monologo che può risultare un po’ lungo. Però mai banale.

Ieri sera dalla “voce” di Paolo Palumbo. Dalla “voce”muta della Sla. Una “voce” eloquente che ha fatto volare gli occhi, i cuori. Una “voce vera”. Paolo, dalla cattedra della sofferenza è riuscito a sgranarci una luminosa beatitudine, l’ha balbettata per tutti noi: «Credo e recito il Rosario ed è proprio lui a tenere lontano il mio sicario».

Con Paolo il Festival è riuscito a dare voce non solo alla musica, al tempo. Anche alla “vera” fede. Quella che si allontana dalle favole, dai fioretti, dal devozionismo, dal pietismo, da para liturgie obsolete e sconnesse dalla vita e dalla storia. Da impalcature di pseudo spiritualità propenitenziali, da sbavature angeliche. Una fede bagnata dal sudore di chi abita il Getsemani, ma che è già trasfigurata dalla luce del Risorto. Una trasfigurazione che contagia. Luminosa e illuminante la testimonianza del fratello di Paolo: suo fedele angelo custode che riesce quotidianamente a rinnegare se stesso.

Un concerto di emozioni, senza lamenti, fatto non solo di musica. Ma di storie di vita. Ecco perché Sanremo può anche piacere, unire. Per certi aspetti, senza scadere in possibili banalizzazioni, nel festival vi è un pezzo della nostra Italia. Con la sua storia. Evoluzioni, trasformazioni. Nostalgie. Con la sua “leggerezza”. Con i suoi valori.

Alla fine il Festival resta una vetrina dalla quale riusciamo a guardare la nostra Italia che è come quella mamma: «E più la guardo e più mi sembra bella».