La testimonianza del prof. Francesco Bongiorno da Torino

Mi sono laureato il 22 luglio 2014. Era una caldissima mattinata palermitana. Il 31 ottobre dello stesso anno mi avevano catapultato in una classe di terza liceo scientifico in una scuola privata del capoluogo.

Si inizia sempre con Il cantico delle Creature, San Francesco, santo di cui porto il nome, deve benedire questo percorso triennale di letteratura per le classi della secondaria di secondo grado con la sua lode al creato e non penso sia solo un caso che si debba partire con questo primo brano antologico.

Dopo alcuni anni di scuole private e di lezioni a domicilio, un venerdì di fine gennaio del 2017 mentre mi trovavo in Piazza Giulio Cesare a Palermo con mia madre, ricevo una telefonata: si rischia di iniziare il percorso di insegnamento da precario nelle scuole statali. Non ho ancora certezze.

Raggiungo il mio paese per il weekend come al solito e sabato alle 14 ricevo una chiamata da un liceo di Livorno. Lunedì alle 8 devo presentarmi lì. Stavolta è certo.

Scatta il sequestro di persona. Della mia.

Da vent’anni il venerdì sera, il sabato pomeriggio e la domenica mattina sono sempre stato nella parrocchia del mio paese. Stavolta non riuscirò. Non riuscirò nemmeno a salutare la mia ragazza. Con una mano faccio un trolley alla buona, con l’altra mano compro un biglietto aereo per l’alba del giorno dopo e, malgrado scelga l’opzione “economy”, con così poco anticipo costa davvero tanto. Stringo mia mamma e mio padre. Li guardo. Mi allontano. Un amico di infanzia mi lascia alla fermata del bus delle 15:30, ultima corsa verso Palermo. Piove. Lo saluto. Mi mette in mano qualche soldo in più, un prestito. Non si sa mai. Lo ringrazio. Mi sforzo a guardarlo fingendomi tranquillo. Salgo sul bus. E piango. Ho tanto tempo per farlo poiché il tempo necessario per raggiungere l’aeroporto dal mio paesino è sempre troppo e forse ti costringe a riflettere, per questo non lo accorceranno mai. È fatto appositamente così lungo. Il sequestro procede regolarmente secondo la sua spietata logica.

Non l’ho scelto. Era necessario. Il lavoro non è un optional.

Dalle mie parti, quello per cui ho studiato, c’è ma non è retribuito. Sfido chiunque ad accettare certe condizioni. Allora mi ripeto che vado e torno. Mi vengono in mente le mani di mio padre: il gelo della Germania degli anni Settanta e Ottanta gliele ha segnate per sempre. Stava sfamando la sua famiglia. Lavorava anche sabato e domenica.

Lungo il tragitto (bus, aereo, treno, auto di amico che ti raccoglie in una stazione ad Empoli) organizzo la mia “dipartita”: messaggi, chiamate, audio, posizioni gps, foto mosse da finestrini o estorte alle ali dell’aereo che decolla. Soprattutto, ricevo gli audio dei miei studenti “migliori”, quelli che non hanno mai voluto studiare che, come teorema dimostra, sono quelli che alla fine piangeranno di più. Ricevo audio di studenti increduli, arrabbiati, sconvolti, alcuni in lacrime, ti strappano l’anima perché stavi facendo qualcosa di buono tramite lo strumento della letteratura e dell’umanità che gettavi nel centro dell’aula ogni santa mattina. E ti senti un Giuda. Colpevole.

Regalo la mia bici di Palermo, non ho avuto nemmeno il tempo per svuotare la mia stanza lì, avrei voluto salutare molte persone lì e pure tanti luoghi della città.

Inizia un processo in cui tutto il percorso è un continuo peregrinare: ricordo la coppia toscana che mi ha ospitato fino a Pasqua in una stanza della loro casa. All’inizio avevo solo i vestiti del trolley. Poi sono arrivati gli scatoloni, i pacchi da giù. La prima necessità non era il cibo ma i vestiti primaverili. Dopo Pasqua ho preso i sette scatoloni e a piedi, a più riprese, li ho portati nella nuova stanza, in casa di una gentilissima signora in pensione. La domenica non appartenevo più ad una comunità come ero abituato quando ero in Sicilia. Ogni domenica (lavoravo anche il sabato) con il mio amico giravamo una cittadina diversa e di conseguenza non eravamo mai sempre nella stessa chiesa: Firenze, Siena, Pisa, San Gimignano. Spesso partecipavamo alla Celebrazione eucaristica della domenica sera. O del sabato tardo pomeriggio. Non c’erano tanti giovani in quelle messe. Sentivi la Parola. Non avevi molto tempo per “masticarla”. Intanto, nel tuo paese di provenienza, la vita scorreva immobile. Spazio ai giovani. Il mio parroco, quello con cui ho condiviso tutta la mia adolescenza e a cui devo moltissimo, è morto in un giorno in cui ho ricevuto un messaggino mentre ero in sala professori a correggere compiti. L’ho sentito l’ultima volta al telefono. Malgrado fosse in ospedale, ricoverato, mi chiedeva di me. Era uno stile che difficilmente si scorda, difficilmente si incontra.

Mi è sempre venuto molto complicato tornare in un posto in cui sei stato molto felice. La stessa cosa è accaduta ai tempi della residenza universitaria in cui ho creato più legami, il San Saverio. Ne sa qualcosa l’ultimo presidente diocesano di AC a cui non ho mai rassegnato davvero formalmente le dimissioni. Vorrei non separarmi mai da alcune realtà. Peccato che ciò non sempre sia fattibile.

Ho aderito quasi subito, dai primi momenti in cui ho frequentato la parrocchia, all’Azione Cattolica.

E quasi contestualmente ho provato a dare il mio contributo nelle equipes diocesane, prima ACR, poi giovani, infine in minima parte, adulti. Soprattutto durante il periodo nella prima articolazione, ho creato moltissimi legami personali, la maggior parte dei quali ancora sopravvive. Sono le persone che mai avresti voluto abbandonare, quelle che ti chiamano o scrivono se “salgono” nella tua città nordica di adozione. Mai come questo periodo ho frequentato attivamente la Diocesi della mia Chiesa. Inizialmente, qualcuno ti diceva che appartenere ad un’equipe diocesana fosse particolare, ti dovesse rivestire di chissà quale aura. Subito capii che non esisteva una diocesi delle alte Madonie, se non per scherzo, ma la Diocesi era semplicemente la somma delle altre parrocchie del territorio. Era stupido fare le gare per riempire i campi e gli autobus durante le giornate diocesane e dire “noi sì e tanti. E voi?”. Era sempre una sconfitta e l’inizio di un’interrogazione per capire come intervenire affinché tutti i paesi del territorio diocesano esprimessero la loro partecipazione. Mi faceva piacere anche valorizzare (a scuola accade qualcosa di simile) quei due, tre ragazzi venuti dopo un’ora e tre quarti di strada a vivere un ritiro diocesano, invece che accogliere soltanto i venti ragazzi giunti in quel paese con il pullmino, quella domenica dopo venti minuti di strada fatti da un genitore volenteroso e virtuoso. La Diocesi era quel ritrovarsi e confrontarsi, era arricchirsi e sostenersi. Erano le pizze fredde dopo le equipe, erano i tentativi malgrado le orografie di scambiarsi le vite e di conoscersi bene. Erano gli abbracci e i continui rinvii ad organizzare la prossima pizza anche senza equipe. Erano le imitazioni ai sacerdoti da oratorio. Era un continuo presentarsi al Vescovo ricordandogli ogni volta chi fossimo.

Dopo Livorno, ho dovuto scegliere una meta che continuasse a darmi lavoro retribuito, valorizzato, dignitoso. Ho dovuto lasciare gli impegni in diocesi, in parrocchia, non potevo più garantire i quattro accordi sparuti di una chitarra sudata mentre il nuovo parroco (di cui ho avuto l’onore di essere testimone, seppure breve) celebrava una disertata Messa domenicale, alle 11, sotto lo sguardo vigile del Crocifisso che mi ha visto crescere, soffrire, ridere, meditare, pregare e partire.

E venne il giorno del nuovo Vescovo di Cefalù. Un Vescovo incontrato per la prima volta proprio nella città in cui io, “giovane” precario pieno di scatoloni da traslocare perennemente, attualmente insegno. Torino.

Il clero diocesano era in ritiro qui. Ho un ottimo rapporto con alcuni presbiteri della mia Chiesa cefaludese. Con molti, i ricordi si affastellano; con uno addirittura siamo andati in vacanza in gruppo insieme, te lo immagini in facoltà teologica ad insegnare, più facilmente a guidarci in una lectio e meno a Marettimo.

A quel punto ho scelto di lasciar perdere la preparazione delle lezioni del giorno dopo e in un pomeriggio dell’ inverno 2018 mi sono messo alla guida per raggiungere il luogo in cui si trovavano molti preti diocesani che conoscevo e che avevo il piacere di salutare. Direzione: Basilica di Maria Ausiliatrice. Saluto alcuni membri del clero diocesano, amici non soltanto figure istituzionali rivestite da un ruolo eminente. Mi presentano al nostro pastore della Chiesa di Cefalù. Per la prima volta riesco a scambiare due parole con il Vescovo Giuseppe Marciante. Deve raggiungere il Collegio degli Artigianelli, a pochissimi minuti di auto. Mi offro di dargli un passaggio in auto. Non avevo ricordato che ero nel bel mezzo della ricerca di un alloggio per quel nuovo anno scolastico e mi rendo conto di avere l’abitacolo ancora mezzo pieno. Non riesco a caricare quattro persone ma soltanto lui e altri due sacerdoti. Lì, scambiamo due parole. Il Vescovo sembra davvero interessato e mi chiede se ho intenzione di tornare.

È la domanda che faccio più di ogni altra ad intervalli regolari anche a gangiotorinesi, o a madoniti in trasferta nel Settentrione. Ci chiediamo se ci siano i presupposti. Se ci sia rabbia, delusione, se vogliamo trovare i pro qui, i contro nella nostra terra (o viceversa) ed è subito un profluvio di sole, mare, cibo, famiglia, radici, genitori oppure enti, strutture, collegamenti, lavoro, multisala, nebbia, affitti. Quelle poche battute, quel brevissimo scambio di opinioni ti dilata i pensieri e ti fa pensare alle molte esperienze vissute.

La gente ti dice che sei andato via. E quando ritorni, se mai dovessi avere un accento lievemente inquinato da tonalità non prettamente sicule, immediatamente diventi un nuovo nobile che disdegna tutto quanto ha vigliaccamente abbandonato. Nonostante si dimentica che non lo ha scelto.

Iniziamo, dunque, un elenco. Annoveriamo la gente che vive di quello che arriva da lavoratori che tornano in estate o durante le vacanze, quegli aerei pieni di supplenti a Carnevale, quel volo del sei gennaio pieno di tuoi compagni di liceo che riprendono a fare il medico a Milano, il poliziotto ad Aosta, il professore a Genova, l’ingegnere a Torino. E quando scorri i nomi degli elenchi di persone, trovi più cognomi meridionali che del nord, e diventa arduo trovare in un posto qualsiasi, delle persone che non abbiano almeno il genitore del sud Italia. O del metodo Genova, della costruzione del viadotto Morandi che (vai a sapere perché) il governo nazionale e quello regionale non applicano al viadotto Imera. Della mafia ad Aosta. Di chi considera i meridionali che tornano al sud durante l’allargamento del contagio del Covid19 come untori. Dove decideremo di vivere? Torneremo un giorno? Non solo per matrimoni o per funerali, ma per restare? Dove vivremo? Al nord? A casa? Di queste cose e di altro si potrebbe scrivere ancora ma lasciamo da parte questo argomento. Almeno momentaneamente. Torniamo al Vescovo visto da un diocesano all’estero.

L’altra interazione che ho avuto con lui è stata indiretta, avvenuta tramite il concorso per il logo del laboratorio della Speranza indetto dalla Diocesi di Cefalù. Ero in auto con la mia ragazza e, rileggendo le parole del Vescovo e l’icona biblica che lo ha ispirato, nel retro di uno scontrino fiscale disegniamo la bozza: un occhio che in realtà può sembrare anche un pesce e un pane. Giochiamo con l’accento tonico “alzàti gli occhi” e “àlzati gli occhi”, trasgredendo un pochino alle norme della grammatica della nostra splendida lingua. Il giorno della premiazione io ero in Piemonte, impegnato nelle fasi finali della chiusura dell’anno scolastico.

Cosa si evince da ciò? Un legame con il territorio, con le persone, con i giovani, una persona interessata all’arte e convinto che si possa creare occupazione grazie alla fruizione delle bellezze artistiche del nostro comprensorio. Mi piace quando la gente (rara in realtà) non si perde dietro la fuliggine della retorica demagogica, dentro il proprio ruolo di persona in vista, di spicco, non anonima, che sembra ascoltare tutti ma che non ascolta davvero nessuno, dice che non è colpa sua ma sollecita, faremo il possibile, eccetera eccetera.

Questo non è il caso. E la parola che più voglio ricevere in regalo come un seme in un campo dove si respira fatica è proprio la parola SPERANZA. Per guardare avanti.

P.S.: in questo momento è fondamentale guardare avanti. Per uno starnuto e un colpo di tosse, potremmo venire pugnalati. O alcuni ne approfittano per farsi aprire i caveau delle banche. Le psicosi sono dietro l’angolo. È il caso di vivere un confino volontario in cui la tua casa è la tua persona. Non sentiamo nostre dei muri in affitto, ma possono riscoprirsi rifugio, protezione, fortini. Manco fossimo in guerra, giungono dispacci di assedio. Abbiamo bisogno di esercitare altro: responsabilità e un pizzico di ironia. Buon senso. Capacità di adattamento per modificare la propria routine senza nuocere a se stessi e agli altri. Dobbiamo ricordarci di essere umani, non spegnere lo splendido che abbiamo. Le lezioni virtuali diventano wikipedismo e non sono efficaci, sono un tampone. Serve ancora il contatto umano quando il sole caldo del cessato allarme riprenderà a riscaldare i nostri buoni sentimenti. E allora concludiamo riportando il salvifico, rassicurante, necessario e puntuale messaggio di un amico:

“Vengono tempi di introspezione – e sembra che ce ne sia bisogno –, vengono tempi per tornare re della propria vita, principi delle proprie scelte. Vengono tempi lenti, “schiffarati”, buoni per carezze profonde e cure d’amore. Non chiedo più a Dio la pioggia o la salute. Accetto quel che viene, ciò che dà, nella fiducia che Lui sia dentro me, per proteggermi come il bacio di una madre, o il braccio di un padre. Ascolto e osservo l’apparente disordine dei fatti, resto calmo e respiro: voglio attraversare il tifone, per conoscerlo e sapere cosa ha da insegnarmi. Siamo qui per evolverci”.