Una bottega nel cuore delle Madonie dai tempi, nel tempo e per il tempo

Quelli che stiamo vivendo sono tempi nuovi per l’intero mondo, un mio amico li ha definiti “tempi fuori dal tempo”, riferendosi al disorientamento temporale avvertito in questo periodo di restrizioni.

Eppure su una cima delle Madonie sono certa che un tempo risuoni ogni giorno nella bottega di Fabrizio Fazio.

Artigiano del tamburo, s’è ritrovato spontaneamente a battere gli oggetti che gli capitavano per mano finché non ha deciso di dedicarsi alla costruzione di tamburi, sigillando nel suo paese la propria attitudine. Da vent’anni costruisce tammorre, tamburi a cornice, tamburi medievali e imperiali, venduti in tutto il mondo, tra cui quelli suonati nei prossimi concerti di Biagio Antonacci in tutta Italia, e da artisti di fama internazionale: Fiorella Mannoia, Mario Incudine, Francesco Buzzurro, Richard Smith, Tosca, Renzo Arbore.

L’abbiamo visto ai Soliti ignoti, a Studio aperto, Rai 2 ed avevo intenzione di fare una capatina nella sua bottega. Non ho potuto per far fronte insieme a tutti voi alla battaglia anti-coronavirus ma è bastata una telefonata per cogliere il grande amore che questo madonita prova per la sua terra e per la sua passione. Fabrizio mi fa capire che un tempo c’è sempre e segna le nostre giornate a seconda del nostro carattere e dell’emozione che stiamo provando. “Se si è tristi si suona con poco entusiasmo e grinta, nel caso contrario di felicità si hanno dei ritmi molto forti e veloci”.

Il tamburo per questo giovane trentaduenne è uno strumento ritrovato dai tempi, con cui vivere nel tempo e per il tempo.

Fabrizio è molto legato alla storia del tamburo. Mi racconta che nasce migliaia di anni fa. Il primo suonatore di tamburo di cui si parla nella storia è donna. Visse nel 2380 a.C. e il suo nome era Lipushiau, nipote del re Naram Sim e alta sacerdotessa del tempio della luna di Ur, come testimoniano le più remote rappresentazioni dei rituali di guarigione.

Anche adesso nelle processioni religiose meridionali la prima cosa che si sente e si vede è appunto il tamburo. Così si spiega come quest’arte ci dia la sensazione di fare un passo indietro fino ai tempi antichi, instaurando anche un dialogo con Dio, il Signore del Tempo per eccellenza, allo stesso modo delle antiche suonatrici, e con tutti i popoli che nel tempo ne hanno fatto uso. Non possiamo dimenticare l’importanza che vi attribuisce Israele in questo senso.

Lodatelo con tamburelli e danze,
lodatelo sulle corde e con i flauti.” Sal 150, 4

Il primo dialogo di cui mi parla avviene tra il suonatore e l’animale. La pelle scuoiata dall’ovino per ricavarne la carne, invece di essere gettata, viene usata per ottenere l’anima, ovvero la membrana, cosicché chi la suoni ridoni “anima” alla capra e conversi con essa.

“Basta accarezzare la capra e lei risponde, basta bussare e lei ti apre!”

Da questo dialogo possiamo percepire i suoni del vento, della terra, del mare, suoni vivi che ci mettono in dialogo con l’intero creato, incontaminato dal progetto ecologico del nostro artigiano. Fabrizio aggiunge soltanto i setacci in legno e la latta riciclata per costruire i cembali.

Un altro legame è quello con le diverse fasce d’età, i tempi della vita.

Individua il tamburo come primo strumento regalato ai bimbi che ne sono attratti particolarmente, convinto che, espressione di quello che accade, le percussioni aiutino la mamma a sentire cosa succede anche senza vedere il suo piccolo.

Per questo Fabrizio, assetato di condivisione, ama trasmettere il suo interesse ai più piccoli ed a quelli che incontra, assicurandogli un futuro.

Infine il nostro artista vive nel tempo presente, nella nostra Sicilia. In quell’antica bottega di un barbiere, dove si lavorava il pelo di capigliature, oggi viene lavorato il pelo della capra per ottenere gli strumenti musicali dell’uomo dei tamburi.

Nasce a Gangi (PA), un paesino di circa 6500 anime e mi confida di ritenere “giusto morire lì tra le montagne alte, le chiese, il grido della gru, tra gli anziani, in piazza, tra pietre e arie fresche”, come canta la colonna sonora nel video di Francesco Dinolfo sul sito ufficiale di Fabrizio:

“Sutta stu velu, sta luna, stu celu
Unni un mi scantu di ristari sulu,
c’è tuttu chiddu ca mi fici omu,
c’e lu passatu, u prisenti, u futuru”

L’invito di tanta gente a spostarsi verso le città più turistiche di Cefalù o Erice, dove potrebbe esserci molta vendita, lo stimola a ribattere che “in questo caso sarà la montagna ad andare da Maometto. La gente si sposta e viene a trovarmi fin qui, come succede da molto tempo, altrimenti spedisco”.

Risuona in queste frasi intrise di ritmo un augurio per tutti noi. Quello di ascoltare sempre il tempo che la nostra interiorità scandisce. Perché se è vero che – parafrasando Fabrizio – la membrana del tamburo con la tramontana si affloscia, quindi non suona, ed anche le nostre ossa risentono dell’esposizione al sole “che è calore e ci dona ritmi felici”, o della sua mancanza che ci svuota dentro, è pur vero che il percussionista si cura di scaldare la pelle perché torni a suonare.

Occupiamoci sempre di tenere calde le nostre anime siciliane (e non) perché possano esprimere quello che sentiamo. Prendiamo i nostri tamburi per iniziare o recuperare quei dialoghi che aspettano di avere voce.

Facciamo sentire a chi ci sta accanto quello che stiamo provando e quello che speriamo in questa fredda quarantena, oggi più che mai e da oggi per sempre.