Gli eroi sono personaggi particolari, dotati di superpoteri, invincibili, spesso lontani e irraggiungibili. Un operatore sanitario non è nulla di tutto ciò. Un medico oggi continua a fare quello che è abituato a fare tutto l’anno

Non ho mai amato particolarmente i social, la mia “struttura psicologica” non si adatta facilmente a degli strumenti che ho ritenuto sempre poco adatti ad una sana comunicazione. Per come sono fatto, ho bisogno di guardare negli occhi, toccare, ascoltare. Ma in un periodo in cui tutto ciò non è possibile, mi rendo conto che questi costituiscono un modo importante per comunicare, per condividere….

Penso che condividere per un medico, per un operatore sanitario in genere, in un momento in cui le emozioni che si vivono sono fortissime e le possibilità di esprimerle a volte annullate, possa essere di vitale importanza per andare avanti.

Un groviglio di sentimenti spesso contrastanti: tristezza, angoscia, delusione, senso di solitudine, rabbia da una parte; consolazione, felicità per gli obiettivi che si riescono a raggiungere, speranza, conforto da parte chi riconosce il senso vero di ciò che stai facendo…si affollano e si scontrano nell’animo durante una giornata di lavoro, rumoreggiano e poi si eclissano, pronti prima o poi a rifarsi vivi! In questi giorni si parla spesso di “Sindrome da stress post-traumatico”: è quella che potrebbe esplodere, inaspettata, improvvisa, quando chi è stato in prima linea in questa emergenza deporrà finalmente le armi, ri-mettendosi in contatto con un mondo interiore dal quale in questo momento è spesso costretto a prendere le distanze.

Con un po’ di fatica cercherò di condividere il condivisibile, sperando che ciò possa essere utile per me, e per coloro che in queste righe, leggendo questi sentimenti messi nero su bianco di getto, così come e quando vengono, senza alcuna pretesa, si riconosceranno almeno un poco; o potranno capire qualcosa di più.

Quello da cui voglio partire è un’espressione che sento ripetere tante volte in questi giorni ma che, personalmente, non mi consola, anzi mi urta: quella dei “medici eroi”. Utilizzo la parola medico per indicare tutti gli operatori sanitari, indistintamente, che in questo momento stanno resistendo a denti stretti di fronte a qualcosa più grande di loro. La parola eroi mi da fastidio perché troppo spesso abusata (non mi riferisco ovviamente a quando viene utilizzata in maniera circostanziata, in situazioni o contesti particolari). Forse perché vengo da un terra, la Sicilia, nella quale eroi sono stati troppo spesso chiamati coloro che hanno perso la vita perchè lasciati soli a combattere quel male atavico che è la mafia. Gli eroi sono personaggi particolari, dotati di superpoteri, invincibili, spesso lontani e irraggiungibili. Un operatore sanitario non è nulla di tutto ciò.

Un medico oggi continua a fare quello che è abituato a fare trecentosessantacinque giorni all’anno, anche se fino a pochi mesi fa, nell’opinione pubblica, era più vicino a qualcuno da cui difendersi o da portare davanti ad un giudice, che ad un eroe. Oggi, continuando a fare il proprio lavoro un medico sperimenta tutto quello che può sperimentare qualunque uomo o donna: paura per la salute dei propri pazienti, lutto per coloro che non ce l’hanno fatta, timore per la propria stessa vita, tristezza per il collega che questa vita l’ha persa, preoccupazione per parenti e amici lontani, angoscia per la consapevolezza di poter essere veicolo di malattia per i propri cari (genitori, coniugi, figli) quando torna nella propria abitazione. Condivido con tantissimi colleghi l’esperienza dell’isolamento domiciliare: appena il tempo di entrare a casa, un ciao dalla porta, pochi minuti per stare insieme con le dovute cautele, e subito chiusi in una camera improvvisata come “rifugio” dove trascorrere ciò che resta del giorno o della notte.

Io faccio il medico in una RSA alle porte di un piccolo Comune. Gli “eroi” sono i sanitari che si vedono in televisione, quelli per i quali si canta dai balconi delle case, quelli lontani che non si conoscono e che si omaggiano con i minuti di silenzio. Quando invece lavori e vivi nel posto dove tanti ti conoscono, come alcuni colleghi con i quali ho la fortuna di collaborare, diventi una sorta di “appestato”: non puoi andare a fare la spesa o in farmacia, perché per strada, rischi di incontrare qualche individuo che non si sente sicuro e libero di poter fare jogging o di portare in giro il cane (con tutto il rispetto per questi). Qualcuno di noi si è sentito dire che non dovrebbe tornare a casa, ma “chiudersi dove lavora”; qualcun altro ha trovato il davanzale di casa irrorato da alcool etilico con “intento disinfettante”, qualcuno ancora è stato gentilmente invitato a non lasciarsi vedere in giro… In tutta Italia non sono poche le denunce di operatori sanitari, osannati dai media che, oltre alla grande fatica quotidiana, devono sopportare fatti incresciosi come questi.

Ovviamente l’amarezza che emerge da queste righe è solo una parte di ciò che ho nell’animo. Prevalgono di gran lunga la forza e la voglia di andare avanti alimentate da tutto il bello che, nonostante tutto, fiorisce dalla sofferenza: la coscienza serena di chi sa che sta facendo il massimo, le preziosità delle vite che si riescono a salvare, la dignità data a quei pazienti per i quali non si è potuto fare altro che “accompagnare alla morte”, la gratitudine dei parenti che vivono il dramma disumano di non poter stare vicini ai propri cari, il supporto silenzioso e concreto di tanti, il sorriso di coloro di cui ci si prende cura.

È tutto questo, solo questo, che da la forza di non mollare un attimo, nonostante tutto…