Il coronavirus ha portato via un pezzo di generazione: la terza età che è memoria, affetti e ammortizzatore sociale

Il dramma di questi mesi, causato dall’epidemia da Covid-19, è costruito su respiri affannati, su petti che ansimano, su voci che sigillano suoni e parole; è costruito sui volti dentro ai respiratori sdraiati sui letti e sui volti dietro maschere e protezioni non sempre adeguate; è costruito sui sorrisi ritrovati, tra l’angoscia, il peso delle sirene e gli orari di lavoro ininterrotti. Ma è costruito anche sui corpi che non hanno il tempo di salutare i propri cari, di permettere agli occhi, per un’ultima volta, di parlare, dire, affermare, dichiarare che ci si rivedrà da qualche parte e che si resterà, quello è certo, nel ricordo impresso. Tra chi non ce l’ha fatta – numeri impietosi! – ci sono loro, gli anziani: tassello di memoria, ammortizzatori sociali loro malgrado, con le scarne pensioni e l’umile casa, per una popolazione in bancarotta, tra sacrifici, indici di disoccupazione e povertà tra i più alti d’Europa.

Nel report dell’Istituto Superiore di Sanità dello scorso 7 aprile, con dati aggiornati al 6 aprile, su un campione, a livello nazionale, di 14.860 pazienti deceduti e positivi a Covid-19, l’età media è di 78 anni; di questi circa il 68% è costituito da uomini e circa il 32% da donne (la cui età media è più alta rispetto agli uomini e si attesta sugli 82 anni). Il picco dei decessi, infatti, sul campione considerato, riguarda la fascia di età compresa tra i 60 e i 90 anni.

La sensazione è la dissolvenza delle pellicole cinematografiche, dove la finzione è realtà e qui, in questa realtà che è reale quanto il set delle storie che si raccontano, lo è ancora di più; una dissolvenza fatta di nomi, cognomi, acciacchi, affetti, dolori. Qui sono migliaia i corpi che mancano all’appello, ingrigiti in quel silenzioso corteo funebre che attraversa il Paese.

È scomparsa un pezzo di storia anagrafica, affettiva, sociale; sono scomparsi anziani, vecchi. Tanti. Sì, proprio quelli con i capelli grigi e il bastone, le dentiere e le calotte bianche che somigliano alle nuvole scese sulla terra a camminare sulle loro gambe stanche. Sono anziani, vecchi, testimoni di un secolo breve e portatori sani di manualità e racconti al caminetto; sono stampelle, nella loro ironia sublime, che sorreggono pezzi di società in quell’inversione di ruoli che santifica il disastro politico, economico e sociale. Anche culturale e che mortifica il sistema del lavoro e dell’assistenza, decretando l’azzeramento dei sogni. Ci hanno lasciato, dunque, a causa di un virus, ma anche – in alcuni casi, secondo quello che emerge dai resoconti giornalistici e dalle inchieste che si stanno avviando – per l’assenza di tempestività, di disegni e piani di protezione; perché spesso manca l’immaginazione, anche dell’emergenza. Una popolazione prevalentemente da terza età, soprattutto al Sud dove le carenze infrastrutturali e sanitarie non riuscirebbero a sostenere neppure la minima parte di quanto vissuto al Nord.

Una vita è l’universo intero, ma quando ne vanno via tante, con la loro saggezza gonfiata da medicine e visite alla buon’ora, è il triste giorno di un lutto nazionale e intergenerazionale. A tutti una prece.