Connesso a un sito cercavo di rileggere il brano del Vangelo di Domenica, i primi dieci versetti del capitolo decimo del Vangelo di Giovanni. Dopo qualche minuto, su quella stessa pagina del sito, c’è stata un’invasione barbarica di banner pubblicitari di ogni tipo. Senza tregua. Li chiudevo e si riaprivano. Una proliferazione a catena: quella pagina del Vangelo si era oscurata perché coperta da altro! Ho pensato a noi, alle nostre Eucarestie, al nostro modo di accogliere la Parola del Signore, alle facili e continue distrazioni; all’esercito silente dei banner dei nostri pensieri. Si posano sulle pagine dei nostri occhi oscurando “la pagina web” delle nostre Eucarestie, appannando anche “il sito web” più inquieto della Rete del cristiano: quello della fede. Alla fine ho spento il computer. Per riconnettermi ho avuto bisogno della password.
Anche la nostra partecipazione alla Santa Messa può essere oscurata da quelli che comunemente chiamiamo “i pensieri”, buoni o cattivi che siano. Metaforicamente li abbiamo identificati con gli incalzanti banner pubblicitari delle pagine web. Facilmente diventano dei pericolosi focolai di distrazione, di sfiducia, confusione, di tentazione, di scoraggiamento.
Quando sperimentiamo tutto questo, dobbiamo fermarci per riattivare una nuova connessione. Dobbiamo subito riscrivere la nostra password. Una nuova password. Me l’ha inoltrata l’autore del testo sacro. Non è un codice segreto. Eccovi il primo indizio: contiene sei sole lettere. Secondo indizio: sei lettere tutte minuscole. Dobbiamo batterle non sui quadratini di una tastiera, ma ai limiti di un “recinto” che ha la sua “porta”. Un binomio presente nel Vangelo di questa quarta domenica di Pasqua dove Gesù ci parla proprio di porta e di recinto. Inoltre, afferma addirittura che Lui è la porta di questo recinto e, con un ulteriore dettaglio, ci ricorda che quello è il recinto delle pecore. Ci siamo quasi! C’è una sola indicazione: nello scrivere la password bisogna necessariamente usare i polpastrelli dell’umiltà.
La password è pecora! È una password personale. Ognuno può batterla solo per se stesso. Ma è uguale per tutti! Quanto è strano, quanto è originale il nostro Dio! Una sola password per tutti e per ciascuno! Siamo pecore! A dire il vero, questa metafora non ci sembra azzeccata. Ci verrebbe da dire, pensando a chi l’ha confezionata, che non tutte le ciambelle riescono col buco. Ci siamo sentiti declassati al genere animale e alla categoria delle pecore. Dobbiamo ritornare alle parole di Gesù e alla Sua sapienza divina.
Intanto, Gesù quando ne parla le accosta sempre al pastore. Sono due identità inseparabili. Poi ci ricorda che le pecore sono amate una a una dal suo pastore. Quest’amore è personale e trova la sua espressione manifesta nel chiamarle ciascuna per nome. Alla fine tira fuori la parte più bella di quest’animale: conosce la voce del suo padrone, soltanto quella. Si rifiuta di ascoltare la voce di estranei, ladri e briganti. Ma chi sono i ladri, gli estranei, i briganti di oggi che vogliono scaraventare la porta per distruggere, uccidere “la Verità” e che stanno facendo di tutto per entrare nel recinto come delle astutissime volpi? Non servono particolari lenti d’ingrandimento per individuarli. Oggi sono tutti coloro che buttano palate di fango su Papa Francesco.
Leggevo poche ore fa un commento di Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, sulle trame contro il Pontefice. Il giornalista scrive: «Il Vescovo di Roma è ben più forte di questi suoi e nostri avversari. Non praevalebunt (Mt, 16-18), sta scritto». Saggiamente dichiarava: «Corre una grande differenza tra l’avere opinioni diverse, nutrendo anche franchi dissensi, e il seminare sistematicamente astio e divisione, “investendo” risorse di ogni tipo per questo. Noi credenti abbiamo un aggettivo specifico per quest’opera maligna».
Lasciamo i ladri e i briganti e parliamo un po’ di noi, delle pecore. Vi faccio una confessione. Da fratello a fratello. Anch’io, come tutti voi, sono stato dentro questo recinto. Ho usato e riusato la password “pecora” per accedervi. Qui ho incontrato il giorno della Domenica delle Palme del duemila, una “pecora” di nome Aggeo. Era un bravo ortopedico del Rizzoli di Bologna; la sua nobiltà d’animo si mescolava a un’intelligenza acuta ed elegante. Doveva essere un ottimo professionista nel suo campo. Ha sentito una Voce, l’ha riconosciuta. Era quella del Buon Pastore, del Pastore bello. Quello vero. Ha compreso che doveva essere una pecora. Ha lasciato tutto. Ha continuato a sentire quella Voce. L’ha sempre riconosciuta. Fedelmente. Si è fatto povero. Poverissimo. Un monaco. Senza nulla. Dalle corsie di un rinomato ospedale a una sola cella. Dai congressi di medicina e le sue ricerche, alla ricerca di Dio nel Silenzio della Sua Parola, tutta da ascoltare.
Aggeo parla pochissimo perché sa solo rispondere al Signore. Ogni volta che l’incontro mi lascio guardare dalla luce penetrante dei suoi occhi. Il suo sguardo mi ricorda quello di un agnellino mite, mansueto e docile. Ho visto le sue labbra muoversi, masticare nel silenzio delle parole. È il suo ruminare la Parola ascoltata, l’ha masticata e poi prova a balbettarla con qualche invocazione. Aggeo è timidissimo. Non ama farsi fotografare, forse non si è fatto mai fotografare, però ama tantissimo i bambini. Ricordo che trovandomi nell’agosto del 2007 con delle famiglie nel suo convento di Montesole, furono proprio dei bambini a domandargli una foto insieme. Il monaco non seppe dire di no. Si è fatto bambino. Ogni volta che riguardo quella bellissima foto, una tra le più belle dell’album della mia collezione, è come se vi leggessi la frase di Gesù: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli». Aggeo quel giorno ci ha stupito ancora. Prima di salutare i bambini regalò a ognuno di loro un mazzetto di fiori di lavanda, raccolti nel recinto del giardino del convento. Erano dei mazzetti bellissimi. Confezionati da chi aveva avuto la cura di rendere visibile in quei fiori solo il riflesso della Bellezza del Creatore. Quel pizzico di carta argentata che ne copriva gli steli ne dava una luminosa conferma.
Credetemi, ci siamo commossi tutti. Anche i suoi confratelli presenti. Papa Francesco ci ha insegnato giustamente che il pastore deve portare addosso il profumo delle pecore. Da Aggeo ho imparato che anche le pecore devono portare e spandere il profumo del Pastore. Quando lo abbiamo salutato ho capito che quel profumo delicato e “misericordioso” che emanavano quei fiori di lavanda era il profumo di Aggeo. Ma prima ancora era il profumo del Suo Pastore. E Aggeo, da vera pecorella di Dio, non poteva trattenerlo solo per sé. Ecco perché Aggeo è la mia password segreta che uso per entrare nel recinto. Ne ho due. Una di riserva dovremmo averla tutti.