Al tempo del Coronavirus si trova il tempo per riprendere tra le mani i voluminosi album di fotografie con le loro pesanti copertine in pelle. Un tuffo nel passato, piacevole e mai sterile. Una sorta di viaggio della vita a ritroso che attraversa i binari della coscienza con brevi soste davanti a due possibili stazioni: rimpianto e gratitudine. Mi sono così rivisto in una foto da bravo alunno. Scuola materna, anno 1973. Cinque anni. Grembiule blu e fiocco rosso. Ero molto piccolo. Visualizzando i dettagli scopro che tutto era “mignon”: il banco, la sedia, lo zaino, anche l’album per i primi coloratissimi disegni. Quella foto un po’ ingiallita ha generato una catena di riflessioni. Con dei voli pindarici. Alle orecchie della mia memoria giunge un breve stralcio di una lettera del 1973 di don Dossetti spedita da Gerico alle sorelle di Monteveglio: «Teniamoci modesti, come discepoli sempre bisognosi di imparare». Questo saggio monito diventa una preziosissima didascalia o meglio l’editoriale più azzeccato per la foto da scolaretto che da ieri è sulla mia scrivania. Mi impegna a rigettare ogni nota di superbia che potrebbe indurmi al canto di un invertito magnificat, quello dell’eterno maestro, rifiutando l’identità di discepolo del Vangelo, della vita e della storia.
Nella raccolta delle foto, mancano quelle del mio battesimo. Sono un settimino. Nessuno pensava che riuscissi a sopravvivere. Sono stato battezzato a casa in periculo mortis. Ho voluto subito succhiare il latte dalle mammelle di mamma Rosaria e da quelle della Chiesa. E a te che sei stata mia madre e maestra, con due mesi di anticipo rispetto ai nove canonici e che, da più di 50 anni continui ad esserlo, vorrei aprire il mio cuore. In tanti in questi mesi di pandemia hanno parlato e scritto su di te. Vorrei farlo anche io, pensando a quel bambino della foto della scuola materna. Seduto su quella sediolina, in ascolto. O meglio, come il tuo settimino rimasto in vita. A te, inoltro una preghiera.
Con il Coronavirus si è aperto un capitolo nuovo per la storia del mondo e per la tua storia. Lo sappiamo tutti, dai medici ai politici, dai virologi ai vescovi, dal cinese all’australiano, che siamo tanto lontani da una lucida e completa comprensione di come continuerà a cambiare il modus vivendi. Ogni criterio di giudizio è labile e incompleto. Abbiamo urgente bisogno del tuo ascolto e della tua attenzione. Della tua intelligenza sapienziale e spirituale, della tua lungimiranza materna che alcuni tuoi presunti figli vogliono rubarti perché unti dall’aggressivo virus del potere, un virus eterno, sempre in circolo. Stavolta, cara madre, non hai posizioni da difendere, nessuna corsa apologetica in vista. Da saggia mamma devi continuare a svolgere il tuo ruolo profetico di lievito madre che riesca a illuminare le coscienze degli uomini. Nonostante l’amara serratura del distanziamento sociale, tu sei chiamata a cogliere il movimento del tempo. Sei l’unica a poterlo fare. Ad accarezzarlo, ad abbracciarlo. A parlargli per coglierne gli snodi e le svolte decisive. A sgranare su di esso i tuoi occhi per individuare le nuove vie che si aprono, per mostrarci le traiettorie percorribili, quelle che possono condurci a un rinnovamento profondo. Per attraversarle ci serve vedere le rotaie della grazia che da te scorre. Devi darci il tuo latte per nutrire propositi che portino alla metanoia delle menti e dei cuori. Tu sei chiamata ad ascoltare il tempo e la storia per noi. Da’ acqua a un sistema sociale, culturale, spirituale ed economico appassito e insterilito, inabile e deficiente nel partorire sintesi culturali vitali.
La pandemia impone alle nostre coscienze un travaglio profondo e laborioso; allunga e allarga su di noi le tue braccia per benedire le nostre menti. Esortale a lavorare con volontà sincera e retta, con uno sguardo puro che non si lasci contaminare dai visibili focolai di speculazione economica che ardono, accanto alle ceneri mute delle tante vittime da Coronavirus. Dacci la gioia in questo tempo di emergenza di vivere l’esperienza di una Chiesa a dimensione mondiale che è tale solo se riesce a pensare valorizzando le sue ricche articolazioni locali. Mostrati a noi come quella madre che sa correre e abitare tra le mura delle basiliche dai tetti dorati e i pavimenti luccicanti e, tra quelle delle case che popolano le tante periferie esistenziali con i pavimenti lastricati dalla povertà e i tetti che mostrano solo le travi della disperazione. Tu che sei l’unica mamma che sa parlare benissimo tutte le lingue della nostra casa comune, facci approdare ai lidi di una visione del mondo che parli la sola lingua del Vangelo, il quale ci chiede di prendere le distanze dal perseguire le linee del successo storico. Facci comprendere che viviamo una dolorosa crisi dove tante istituzioni sono senza fede, in agonia o già morte. Rimetti nel circuito dell’economia della salvezza quei tre capitali spirituali che né tignola né la ruggine consumano: la Parola, l’Eucarestia e i Poveri. Sono i tre capitali che ci restano. La pandemia è carestia.
Molti hanno voluto diramare differenti giudizi, analisi e proiezioni sul valore dell’unico capitale che improvvisamente a tanti tuoi figli è stato tolto: l’Eucarestia. Se n’è parlato come quel capitale da vendere o svendere, da custodire o esporre, da far circolare, desiderare, spiritualizzare. Come in un mercato con tanti venditori zelanti e ambulanti. Alcuni muniti di guanti. Tutti con le mani pulite. Altri alla ricerca di pinzette ripescate dalla corte papale di Avignone del XIV secolo. Altri ancora a sbirciare, in appositi cataloghi con dispositivi anti Covid-19, barriere protettive per una protetta distribuzione. Nel caos di queste voci ci siamo dimenticati di te, cara mamma. Non ti abbiamo cercato, altrimenti avremmo visto il tuo volto solcato dalle lacrime per l’esserci comportati come dei bambini capricciosi. Egoisticamente pensavano ad acchiappare il “dono” ricevuto senza avere cura di Colei che ce l’ha sempre donato. Ed io? In questo scambio di opinioni ho scelto di rimanere inchiodato in quella sedia “mignon” della scuola materna. Mi sono ritrovato davanti un grande album di fotografie. La sua copertina era dorata. A sfogliarne le pagine c’eri tu. Mi hai mostrato alcuni volti. Quelli che hanno tutto il diritto di parlare del dono dell’Eucarestia. Quelli di coloro ai quali è stato chiesto di essere Pane Spezzato. Mi hai fatto incontrare Giorgio La Pira e la Messa del povero di San Procolo a Firenze. I poveri in quelle Eucarestie erano il documento vivente di uno squilibrio tremendo, il più drammatico tra tutti gli squilibri umani. Eucarestie che invitavano a una rinnovata moltiplicazione dei pani, a un cristianesimo sociale gioioso che desiderava dare qualche risposta alle attese dei poveri. Mi hai fatto vedere la cella di isolamento di don Ernest Simoni; è stata il suo altare, sprovvisto di fiori e tovaglie raffinate, segno eloquente della sua fedeltà a Cristo e alla Chiesa di fronte a torture, interrogatori meticolosi e spietati. Ma non basta.
Mi hai fatto ascoltare, dalla sua stessa voce, frammenti di verità le cui parole danno vita alla Parola: «Più volte mi strinsero i ferri ai polsi. I ferri entravano nella carne fino a farmi sanguinare e provocare svenimenti. Era come se si fermassero i battiti del cuore e stessi per morire. Poi mi buttavano secchi di acqua gelatissima per farmi rinvenire. Continuavo a celebrare la Messa tutti i giorni. A memoria. In latino. Sfruttando ciò che avevo a disposizione. L’ostia la cuocevo su piccoli fornelli a petrolio che servivano per il lavoro. Il vino lo sostituivo con il succo dei chicchi d’uva che spremevo. D’inverno utilizzavo le boccette con il vino che da casa mi portavano i miei parenti». Tutto questo in Albania in un “lockdown” non di alcuni mesi, ma di 28 anni. Mi hai mostrato un’altra foto. Vi erano dei flaconi con la scritta «medicina per lo stomaco» e il cardinale François-Xavier Van Thuân. Esse erano le ampolline che contenevano il vino per celebrare la Messa al tempo della sua prigionia in Vietnam durante la feroce dittatura comunista. Poi mi hai chiesto con un filo di voce se ricordassi qualcosa del giorno dell’Epifania del 1980. Abbiamo visto una foto con un’auto piena di sangue. Mi hai parlato, col cuore ancora spezzato dal dolore, di tuo figlio Piersanti, della moglie Irma, dei figli Maria e Bernardo. Stavano per venire a casa tua e casa loro, per celebrare l’Eucarestia. Un killer dagli occhi di ghiaccio spara su Piersanti. Una rapida crocifissione a colpi di pallottole. Dal garage di via Libertà 147 prima e dall’ospedale di Villa Sofia dopo, il corpo e il sangue di Piersanti si univa al corpo e sangue di Cristo nell’Eucarestia che si stava per celebrare nella chiesa di San Francesco di Paola, a due chilometri di distanza. Mi parlavi di Piersanti Mattarella, il fratello maggiore di Sergio, il nostro Presidente della Repubblica. Di Sergio ricordavi ancora un dettaglio: il suo maglioncino si era “colorato” del sangue del fratello.
Un segno delicato e indelebile, di amore, di condivisione piena di ideali, di valori. Un segno ricco di profezia che avrebbe dato i suoi frutti. Una sorta di passaggio di consegne. Un testamento che prevedeva un’eredità scritta già dal sangue innocente di un nuovo Abele del Signore e della storia. Seguirono dei minuti di silenzio. Profondo. Capii che dovevi dirmi qualcosa di molto importante e di bello. I tuoi occhi erano luminosissimi. Mi confidasti che erano ancora più luminosi quella sera del sei gennaio 1980 quando la famiglia Mattarella ha chiesto al parroco di celebrare quella messa a cui Piersanti non aveva fatto in tempo a partecipare. Il corpo di Piersanti era già ritornato in via Libertà. A Casa. Quell’Eucarestia possibilmente fu celebrata nello studio del Presidente della Regione Siciliana, tra i suoi libri e le sue carte. La sua pisside e il suo calice. Decido di cancellare dal mio smartphone tutti quei fiumi di parole e d’inchiostro, con i relativi commenti sulle disposizioni da mettere in atto per celebrare le sante messe nella fase due del Coronavirus. Posizioni opposte. Con firme rispettabili. Profondamente sincere. Appassionate. Dettate da valide e differenti preoccupazioni. A nessuna di esse mi ero prostrato. Ma quell’Eucarestia che veniva celebrata come azione di perdono verso quel Golia che chiamiamo mafia, mi spiazzava.
Cara mamma, i poveri di La Pira, la voce di don Ernest, i flaconcini di Mons. Van Thuân, il sangue versato da Piersanti li ho incontrati nella Messa che ho celebrato nei primi vespri della Solennità dell’Ascensione, al tramontare del sole. Era la prima Messa col popolo post emergenza Coronavirus. In quelle pagine di dolore, di perdono, di speranza, del cammino di fede mai esibito di tanti testimoni, ho percorso la via bagnata dal sangue della Crocifissione e dalla luce della Resurrezione di Cristo. Quella via che attraversa ogni Eucarestia. Ma c’è altro. Quando passo tra i banchi per distribuire l’Eucarestia, ho davanti a me una bambina. Alza la sua mascherina. Mi accorgo che iI suo viso è solcato da due grosse lacrime. Brillano. La guardo. Mi sorride. Quella bambina con le sue lacrime e il suo sorriso mi ha indicato la via per rimanere discepoli di Gesù Cristo tra le braccia di Mater Ecclesia. Quelle lacrime restano un dono: la pandemia e L’Eucarestia vista con gli occhi di un bambino. Ai bambini dobbiamo accostarci con rispetto e con fede. Perché, come scrisse don Tonino Bello: «Dire con rispetto significa riconoscere che il bambino è fragile. Dire con fede significa che il bambino è pieno di Dio». Aveva proprio ragione don Dossetti: «Teniamoci modesti. Come discepoli sempre bisognosi di imparare». Sempre. E soprattutto al tempo del Coronavirus.