Nella fase due del Coronavirus la mia coscienza non trova guanciali dove dormire. Colpa anche di un pontificale anomalo che ha celebrato il ritorno a stare insieme del mio Vescovo Giuseppe con i suoi presbiteri.

Una solenne liturgia della verità e della speranza che ha infranto i canoni del Cerimoniale Episcoporum. A iniziare dallo spazio celebrativo, una grande sala di un istituto religioso. Con un unico “paramento” indossato da tutti i concelebranti: la mascherina. Segno e insegna di un rinviato rito delle esequie del COVID-19. Al centro della solenne celebrazione nessun libro liturgico contenente formule sacramentali, ma il cuore del vescovo con una riflessione-conversazione impaginata e confezionata da mani addestrate all’arte della semina e che sanno arare i campi della storia. Smorzata la paura del contagio e degli untori, il pungolo e la voce del mio Vescovo mi distolgono da ogni assopimento. Da una altalenante paralisi spirituale, pastorale e culturale.

Riascolto e rimastico con calma la sua lucida analisi. Una sorta di laboriosa consegna profetica, simile al dono di un corposo e ordinato mazzo di chiavi. Ognuna capace di aprire i catenacci dei cancelli che, negli amari giorni del lockdown, ci hanno saggiamente costretti a digiuni e carestie pastorali. Così le pungenti esortazioni di Mons Marciante diventano scintille. Si è scatenato un incendio.

Oggi mi sento arrostito dalla grazia di Dio. Non c’è più posto per sonni e sogni tranquilli. Per galattiche illusioni che tutto possa ritornare come prima. Per coloratissime tisane e zuccherate camomille pastorali. Il primo focolaio di luci è divampato dalla prima scintilla che si è sprigionata dalle fiamme di grazia che accerchiavano la riflessione: «Non possiamo vivere di rendita. Si è concluso il tempo del continuare a fare ciò che si è sempre fatto e con le stesse modalità».

Un graffiante invito a fare uscire le nostre comunità da un logorato reparto di terapia intensiva. Un reparto che le tiene in vita anche senza la continua presenza del soffio di vita dello Spirito Santo. Ci sono dei ventilatori artificiali. In uso ormai da diversi anni. Respiratori artificiali e precise manovre rianimatorie riescono a bloccarne l’arresto letale. In quelle gelide corsie, alla leggera e piacevole brezza dello Spirito Santo, si sono sostituiti venti polari che hanno causato la carestia della speranza anche per le fredde correnti del narcisismo, del vittimismo e del pessimismo.

All’interno di quest’immenso reparto, si è tentato l’allestimento di una unità di risveglio. Ma le stanze erano già occupate dalle feste patronali, dalle cresime, dai matrimoni, dalle “sempre verdi” forme di devozionismo che svendiamo a mo’ di assicurazioni contro malattie e sofferenze.

Bisogna reclutare nuovi medici e infermieri pastorali preparati ad usare un cocktail di farmaci che metta insieme la Parola di Dio, la storia, i cambiamenti sociali, i valori e la ministerialità. Sfida autenticamente e altamente profetica. Si è sempre parlato di “cura” pastorale. Curare non è regnare, ma servire. Abbiamo visitato e percorso queste corsie con cammini rovesciati. All’incontrario.

Ritorniamo a quel pontificale celebrato senza turibolo e navicella. Assente anche l’incenso e il suo profumo. Anche se si è appiccicato sui miei vestiti un nuovo profumo i cui aromi producono una sana inquietudine che dà luce e sapore alle mie ore del giorno e della notte. Un pontificale che ha attivato un celere reset cardiologico. Si è creato uno scudo protettivo su possibili aritmie spirituali e accelerazioni cardiache che potrebbero sfociare in progressivi attacchi di panico pastorale post Coronavius. Ci è stato dato un vaccino che sa bloccare l’arrivo di una violenta “invasione barbarica” di virus che si può abbattere su pastore e pecore, generando il pericolosissimo e contagiosissimo focolaio della depressione.

La solenne liturgia con le mascherine non si è conclusa con la benedizione finale perché il Vescovo ha voluto che avesse un suo vivo prolungamento nella quotidiana sperimentazione di una preghiera che non si piega alle illusioni e alle rassegnazioni. Una preghiera che non si nutre e non cerca parole. Sono al lavoro gli occhi che osservano, scrutano; vogliono leggere le pagine di questo tempo. Sono scritte con dei caratteri nuovi. Voglio toccarle. Stringerle con le mani. Con profondo rispetto. Non mi basta sfogliarle. Voglio entrarci dentro. Senza paura. É la mia nuova preghiera. Con le labbra cucite.

A farmi da guida in questo percorso “post pontificale” e post pandemia è la seconda raffica di scintille, di semi di speranza del Vescovo Giuseppe: «Il virus invisibile ci ha tolto le folle». «Ha attivato una scrematura». «Dobbiamo ripartire dalle piccole comunità». Seguono delle domande: «Sappiamo resistere a questo nuovo status?». «Avremo l’intelligenza e il coraggio di approdare a nuove scelte?». «Come viviamo questa grande responsabilità?». «Riusciremo ad accompagnare in modo intelligente questi cambiamenti voluti dallo Spirito?».

Ci sono state tolte tante bevande inebrianti. Le catarsi collettive. L’effetto folla si è dileguato. Finito possibilmente il tempo delle masse. Dei miracoli. Siamo chiamati ad essere compagni di viaggio dello Spirito Santo che ci porta all’Essenziale. A elaborare percorsi e cammini sinodali. Siamo stati costretti ad interrompere, con il rammarico di tanti, le nostre affollate processioni.

Domenica ci mancherà la processione Eucaristica con gli altarini, le infiorate, i canti dei bambini della prima Comunione. Resta sempre l’Eucarestia. Ripartiamo sempre dalla Parola e dall’Eucarestia! Forse riusciremo a mettere un po’ da parte ostensori con smisurate raggiere, troni e tronetti con angeli dai visi esageratamente paffutelli, piviali e pianete merlettate, drappi vellutati. E come se ci venisse chiesto un ritorno alla stalla e alla mangiatoia di Betlemme. Alle fasce. Al farci piccoli. All’umiltà. A tutta quella costellazione di valori che ruotano attorno ad un Valore Assoluto: l’Essenziale.

Forse abbiamo fatto abitare il Corpo di Cristo in un hotel a cinque stelle, dimenticandoci che Lui preferisce la stalla e il letame. Abbiamo per il Re dell’Universo pianificato un artefatto riscatto sociale. Una divinizzazione in ascesa del Cristo povero che ne ha annebbiato l’umanità. Domenica rimettiamo l’Eucarestia, il pegno dell’Alleanza, al centro di tutto. L’eucarestia è data a tutti. Demoliamo quella arrugginita impalcatura devozionistica che ha fatto dell’adorazione eucaristica un atto intimistico e possibilmente solitario.

Diceva don Dossetti in una sua omelia per la Solennità del Corpus Domini del 1985: «Chi compie un atto di adorazione porta con se tutto il popolo. Non è un atto individuale; non c’è una devozione privata. É sempre un atto ecclesiale. Anche se andiamo da soli, portiamo tutti gli altri. È un atto collettivo che prestiamo a nome di tutti».

Forse anche questo è un pontificale. Dal quale bisogna ripartire.