Succede. Spesso diventa anche un bisogno. Quello di pettinarsi la coscienza. Nei giorni vicini all’anniversario dei miei ventidue anni di ordinazione presbiterale provo a farlo anch’io. Ad alta voce. Tra le onde del passato cerco di ripescare nel mare della storia della mia anima delle gocce. Gocce di memoria. Le raccolgo. Riesco a trattenerne sul palmo delle mie mani solo quattro. Due sulla destra e due sulla sinistra. Le osservo. Sono cristalline. Trasparenti. Pulitissime.

Nel celebrare questo “battesimo” dei ricordi mi entusiasma assegnare un nome a ogni goccia. Sulla scelta non si mette in moto nessun prurito di originalità. Quattro verbi: donare, ricevere, fallire, sperare. I punti cardinali del cammino della vita. Del nostro sconosciuto mondo interiore e esteriore. Del mio ministero.

La goccia del donare mi obbliga a un trasloco temporale e spaziale. Siamo a metà giugno del 2013. Mi trovo nella stanza di un ospedale. In uno dei suoi letti, per una frattura al bacino, è costretto all’immobilità il mio vecchio parroco, don Angelo. Prossimo ai novant’anni, è lucidissimo. È stato il curato del mio paese per mezzo secolo. Una sorta di Treccani o Wikipedia della parrocchia. Conosceva tutto di tutti. L’incontro mi ricorda qualche stralcio di C’è posta per te o Carràmba che sorpresa. Con una sostanziale differenza: nulla di artefatto, di preconfezionato. Manca la spettacolarizzazione dei sentimenti. Gli affetti possiedono come casa la realtà e mai i palcoscenici. Improvvisamente avverto agli occhi un fastidioso bruciore. In quella camera circola un odore brutto, cattivo, a tratti pungente. Sa di acido, di ammoniaca. Le mie narici ne individuano la fonte: il pannolone del mio parroco. Ne conosco la riservatezza, il pudore, la discrezione, I’irreprensibile rigore. Con i modi più eleganti e quasi balbettando gli faccio notare che urge cambiare il pannolone. Gli dico che posso farlo anch’io. C’è un prevedibilissimo e ostinato rifiuto. La resa arriva ricordandogli che per me si tratta di un servizio quotidiano che esercito con mio padre. Lui è il mio “padre-parroco”. Quella stanza è attraversata da un religioso silenzio spezzato alla fine “del cambio” da una rocciosa affermazione: «Le tue mani di sacerdote!». Mi ha guardato. Gli occhi erano rosso papavero. Quel rosso che sembrava colorare anche le due lenti e le copiose lacrime che ne attraversavano il volto. Le mie mani avevano donato al “padre-parroco” il mio grazie per tutto quello che era riuscito a insegnarmi, donarmi e testimoniarmi. Mi capita spesso di risentire quella voce e quel monito quasi benedicente: «Le tue mani di sacerdote!». Soprattutto quando tocco il Corpo di Cristo. La goccia di nome “donare” sa lasciare il tempo della memoria e abitare il presente.

La seconda goccia, “ricevere”, mi apre il cancello che mi porta tra i viali, bagnati dalla sapienza che le donne di Dio sanno versare con il genio e l’eleganza DOC della quota rosa. Quella goccia è stata abitata da Suor Lucia, una monaca della Comunità di Monteveglio di Dossetti. La religiosa, novantenne, con altre due sorelle fece una trasferta nella mia canonica per un ritiro di sette giorni. Alla fine mi chiese di celebrare il sacramento della riconciliazione. Un faccia a faccia tra un premio Nobel della vita monastica e un parroco, fresco di nomina, che provava a spiccare il volo. In quel momento Suor Lucia in modo schiacciante mi ricordò madre Teresa di Calcutta. Entrambe di bassa statura. Gobba. Fronte alta con profonde rughe. Mani grandi. Le voci avevano lo stesso timbro. Uguale cadenza, come se i loro corpi avessero scelto lo stesso look con un identico messaggio: abbiamo preso le distanze da un banale cristianesimo decorativo. In quel faccia a faccia, dove al centro stava la misericordia di Dio, in realtà vi era la sua vita con tutte le sue note. Quella confessione fu un concerto che mise insieme la misericordia, la ragione, l’ubbidienza, la fede, la sofferenza, il dialogo, il silenzio. Vi era la sua laurea in matematica, il tempo trascorso in un monastero ortodosso in Grecia, gli anni vissuti da eremita in Giordania su un terrazzo accanto a un pollaio, quelli trascorsi nelle varie sedi della Piccola Famiglia dell’Annunziata. Sempre come Maria, la sorella di Lazzaro, accovacciata ai piedi del Signore per ascoltare la Sua Parola. Ho celebrato il sacramento del perdono con Suor Lucia in una stanza della canonica. In realtà sono convinto che il luogo sia stato un altro: il suo cuore e la sua coscienza. Li metto insieme. Diventano un enorme salone: “la cappella Sistina” di suor Lucia. Io vi sono entrato. In punta di piedi. Ne sono stato un ospite, non per assistere all’elezione di un Pontefice o per incontrare dei cardinali ma per scoprire uno stato specialissimo di grazia al quale però allora non riuscii a dare un nome. Era la prima volta che lo incontravo e ne ascoltavo la musica. A distanza di anni, scopro che a quello stato di grazia che avevo ricevuto visitando “la cappella Sistina” di Suor Lucia, qualcuno aveva già dato un nome: la “bambinitudine”. Lo scopro leggendo Prima che tu venga al mondo di Massimo Gramellini. Il giornalista, nel suo libro, parla di uno stato di grazia che i bambini possiedono in modo inconsapevole. Non è un concetto ma una predisposizione dell’anima alla scoperta. A vivere ogni volta come se fosse la prima. Una vera e propria eterna scintilla di purezza. Suor Lucia mi ha testimoniato che la misericordia di Dio, per essere celebrata e per entrare nella “cappella Sistina” di ciascuno, ha bisogno della “bambinitudine”. Va celebrata ogni volta come se fosse la prima volta. Anche la goccia del ricevere scivola dalle mani della memoria per raggiungere il presente. Da allora, grazie a Suor Lucia, la voglio accanto a me ogni volta che ricevo il perdono del Padre.

Adesso dovrei raccontarvi delle altre due gocce: fallire e sperare. Vi prometto che lo farò a breve. Con un nuovo scritto. Ho bisogno di ritornare a osservarle con gli occhi di un bambino. Anche perché, nella vita, a vincere è solo chi sa fallire e sperare. Chi sa ritornare bambino.