La terza goccia ha avuto una genesi dolorosissima. Un “parto cesareo” non programmato. Ne conosciamo già il nome: fallire. Al suo nascere, però non ha una voce. Il seme che l’ha generata è stato un pianto inarrestabile. Incontenibile. Senza alcuna parola che lo accompagnasse. Un pianto che ha subito sferzato e bruciato il mio cuore e il mio cervello. Col fulmine del dolore. Uno scorrere inarrestabile di lacrime che non vedi. Le ascolti soltanto. Attraverso un telefono che ti sembra essere impazzito.
Sono le lacrime di Antonella, la fidanzata di mio fratello. Misteriosamente e sapientemente è come se andassero a rigare e irrigare una pagina del Vangelo. Quella del capitolo settimo del Vangelo di Matteo che diverse volte avevo proclamato. Già mi parlano di una violenta tempesta, di venti che soffiano impetuosi, di fiumi che straripano. Di argini che saltano in aria. Di una grande rovina che si è abbattuta sulla mia casa. Nella mia vita. In quella di mamma. In quella di papà che mesi prima era stata completamente stravolta da una bestiale ischemia che aveva paralizzato totalmente metà del suo corpo. Quel pianto senza parole, mi aveva già fatto udire il potente tuono della morte. Con la sua paura che volevo testardamente murare.
Giacomo, il mio unico fratello. Fratello “di sangue”. Era morto. A soli trentaquattro anni. Il gigante buono, così lo chiamavano i colleghi, era stato schiacciato da un gigante cattivo, che non perdona; il suo nome l’ho letto nel certificato di morte: infarto acuto al miocardio. Alle porte dell’ospedale il suo ultimo saluto ad Antonella. Senza parole. Con un sorriso. Delicato. Pieno di grazia. Per me il processo di condensazione dal vapore della morte alla goccia del fallire è stato quasi immediato. Alla fidanzata senza voce chiedo di farmi ascoltare la voce di Giacomo. Voglio sentirlo. Niente da fare. Ricordo che strinsi fortemente le mie mani alla ringhiera delle scale. Quelle di casa e quelle della vita. Mi accasciai lentamente sui gradini. Silenziosamente. Su quelli delle scale e quelli della vita. Ero lucidissimo. La morte è una tremenda monarchia assoluta. Ha un potere mostruoso. Tira fuori la sua ghigliottina che spezza a metà il tuo corpo. Lo uccide. Non riuscivo a rialzarmi. Era come se le mie gambe e le mie braccia fossero state tagliate. Decapitate.
La goccia del fallire scorreva e dimorava in ogni punto del mio corpo. Eppure, una manciata di minuti prima avevo letto una email. Mi era stata inviata da don Athos Righi, in quegli anni il superiore della Piccola Famiglia dell’Annunziata. Chiedeva una preghiera. Quel giorno ricorreva il cinquantesimo anniversario della morte di Fabio. “Della nascita al cielo” del giovane fratello. Fratello “di sangue”. Athos scriveva che la sconvolgente notizia lo aveva raggiunto a Lourdes dove era in pellegrinaggio. Mi ero chiesto quale potesse essere lo stato d’animo di ciascuno di noi di fronte a queste tragedie non programmate. Adesso ne conoscevo la risposta. Almeno la mia. Molto personale: un fallito.
Sogni, bisogni e desideri crollati. Macinati. Spazzati via da un eterno no. Avevo sognato di benedire le nozze di mio fratello. L’omelia era quasi confezionata. Sarebbe stato il mio regalo. Desideravo ardentemente dei nipotini. Con i quali giocare. Ai quali fare dei regalini. Scherzando ne avevamo scelto i nomi. L’identità dello zio prete che li portava a passeggio mi gasava. Possibilmente, conoscendomi, l’avrei vissuta come una pseudo- paternità biologica. Da fallito sono stato costretto a scendere i gradini di quella scala. Una chenosi. Una discesa. Tremenda e indescrivibile. Mi ritrovai solo. Nudo. Come uomo. Come cristiano. Come presbitero.
Non mi era stato permesso neanche di rivolgere a Dio una preghiera per Giacomo. Chiedergli di salvarlo. Glielo avrei gridato con tutta la fede che avevo coltivato nei miei quarant’anni di vita. Non ho sostato tra i rami dell’orto degli ulivi. Ero stato catapultato in quel luogo detto Cranio. Per la prima volta. Senza un tempo di preparazione. Nessuna attesa per un possibile miracolo, magari dopo qualche ora di terapia intensiva o un complicatissimo intervento. Nessun duello tra la vita e la morte. Subito dentro un sepolcro.
Dovevo raggiungere mamma e papà. Mi chiamavano. Col fiuto dell’amore avevano già capito che era successo qualcosa di grave. Mi presentai a loro come un fallito. Loro erano seduti l’uno accanto all’altro. Mi inginocchiai ai loro piedi. Mi prostrai come figlio, il loro unico figlio su questa terra, ai piedi della loro maternità e paternità. Divisa a metà dalla spada della morte. Li abbracciai entrambi.
Con una forza impastata dal lievito delle lacrime. Con un filo di voce riuscii soltanto a pronunciare il nome di mio fratello. Eclissai temporaneamente il mio dolore. Lo ingabbiai nella goccia del fallire. Sulla mia pelle, con gli abiti del fallimento, per la prima volta indossai la veste della vera compassione. Entrai nel dolore di mamma e papà. L’ho vissuto in quell’abbraccio. Io e mamma ci ritrovammo abbracciati. Inginocchiati. Papà lo era col suo cuore. Quell’ unico organo che l’ictus non aveva molestato.
La posizione che il mio corpo aveva assunto era quella fetale. Rannicchiata. Volevo ritornare ad abitare il suo grembo per comprendere in pienezza il dolore della mamma alla perdita di un figlio. Volevo dimorare nel grembo che aveva custodito e generato me e Giacomo. Anche per donarle nel modo più puro l’amore di un figlio. Cercavo di trovare una via che togliesse dalla mia carne, dalla mia intelligenza e dalla mia fede quel devastante e totalizzante fallimento che mi aveva crocifisso. Papà Illuminato prese la parola. Mi chiese di mettere tra le sue mani una vecchissima corona. Era della nonna. Stava al capezzale del letto matrimoniale. Iniziò il suo rosario. La cui recita era interrotta ad ogni decina da un’invocazione: «Mio figlio è con il Signore. Perché così ha voluto Dio». L’invocazione alla Santissima Trinità era stata sostituita da questa sua rocciosa certezza. Mio padre proclamava con la sua lingua e la sua vita quei versetti del capitolo sette del Vangelo di Matteo che parlano di una casa che, costruita sulla roccia, non cade. Nonostante la grande rovina. Mi rialzai. Vidi la luce. Ripresi a camminare.
Da quel 21 ottobre del 2009 ogni volta che abbraccio una madre, un padre, un fratello, una sorella, un figlio, una figlia che sostano ai piedi di un sepolcro apro la mia mano. Vi ritrovo la goccia del fallire. La riguardo. Da due prospettive differenti. Da un lato mi ricorda il mio accasciarmi, la mia posizione fetale. Il mio fallimento visto con le lenti della carne. Dall’altro vi scorgo la preghiera di papà, e l’avere saputo costruire con la mamma, forse senza averne consapevolezza, la nostra casa sulla Roccia. Quella goccia mi insegna che certi fallimenti sono delle visite di Dio. Così mi scriveva don Athos in successiva email, appresa la morte di Giacomo: «Oggi la tua casa è stata visitata da Dio».
A presto. Con la goccia dello sperare. Anche se ne sentiamo già il soave profumo stringendo tra le mani la pesante goccia del fallire.