La goccia della speranza è piccolina. Una piccola gocciolina. Eppure, riesci sempre a guardarla. È quella che ti attraversa dai piedi all’anima. Forse è per questo che è come un mondo che non fa rumore. Resta appesa alle nostre albe e ai nostri tramonti. Ti “bagna” anche di notte. Anche quando dormi, la senti insieme ai ritmi del tuo stesso cuore. Due battiti all’unisono. Spesso ha un suo forte profumo. Come quello del mare a Gennaio. Possiede una sua casa con i suoi rumori. Le sue voci e i suoi canti che sai riconoscere, ma che non riesci mai a imparare. Ha una sua porta stretta e un suo portinaio.
Capisci subito che non è un mercante di stelle. Perché prima ti domanda quali siano i tuoi bisogni. Poi i tuoi sogni. Sa ravvisare dalla tua voce ogni bugia. Anche le “oneste” bugie. È un portinaio testardo. Detesta ogni possibile forma di vigliaccheria. Di astuzia. In tanti prima di accedervi hanno anche pianto. Hanno versato lacrime riempite di dolore, di sofferenza. Di disperazione. Di fallimento. Lacrime che non si sono impigliate nella rete delle ciglia, ma che hanno sciolto certe “maschere”.
La casa della speranza ha una sua foresteria. Dove sei obbligato a deporre ogni maschera che ha consumato i tuoi occhi e che ti ha fatto guardare e mangiare la vita come uno spettacolo. Con i suoi fischi e applausi. Il portiere sta per finire la sua missione.
Prima di lasciarti ti sussurra all’orecchio che incontrare la speranza è come vedere una luce “bambina”, con la quale devi sapere giocare. Ed io quella luce bambina l’ho incontrata. A Mussomeli. Nella stanza di una casa-famiglia che accoglieva quei “bambini” col cuore puro in eterno. Era il venti maggio del 1998. Ero lì con il mio professore di teologia pastorale, don Vincenzo Sorce.
In quella situazione era proprio lui il mio “Caronte” della speranza. Stavolta con una lezione senza manuali perché “gridata” dalla cattedra di due cuori semplici e innocenti. La ricordo come dentro un film. Ne vedo correre il nastro. Contemplando la goccia della speranza che sta ancora sul palmo della mia mano. Specchiandomi in essa ne rimonto ordinatamente le scene.
I cuori erano quelli di Pinuccia e Angela. Pinuccia è una disabile di trentacinque anni. Non ha occhi. Non parla. Non sente. Non puoi fotografare il suo volto. Puoi solo vederlo anche una sola volta. E amarlo. Per tutta la vita. Non può camminare senza essere sostenuta da braccia altrui. Il tatto è il suo unico strumento di relazione. Angela è una quarantenne autosufficiente in tutto, ma è rimasta “bambina”. I suoi genitori sono morti da diversi anni. Ma Angela non è sola, Pinuccia è sua “figlia”. Entrambe disabili stavano sotto lo stesso tetto da quindici anni. Dal giorno in cui, su iniziativa di padre Vincenzo, è sorta questa casa. Angela vigila e accudisce attimo per attimo Pinuccia. Sono inseparabili. L’una rende felice l’altra. Tra loro scorre l’amore di madre e figlia: basta fermarsi a guardarle per scoprirlo. È una storia che riempie la vita.
Ogni sera Angela per fare addormentare Pinuccia (dormono nella stessa stanza) accosta i due lettini, l’accarezza, la bacia. Ma non basta. Le canta la ninna nanna, forse ricordando quella della sua mamma. Infine, Angela prende delicatamente le mani della sua “bimba” e l’aiuta a fare il segno della croce. Pinuccia dorme. Angela col passo vellutato da gatto si reca alla sala Tv. Ha bisogno di scambiare quattro chiacchiere su trucchi e vestiti con le compagne. Però non è del tutto tranquilla. Invita le amiche a interrompere per pochi minuti la discussione. Ha bisogno di allontanarsi. Deve verificare se Pinuccia continua a dormire. Come una vera mamma. Risale serena. Una delle operatrici, vedendola ritornare dice: «Tra mezz’ora esatta riandrà a controllare. Possiamo puntare gli orologi!».
Quasi tutte le mattine Pinuccia si sveglia gridando. Le sue mani cercano quelle della “mamma”. Ha bisogno di toccarle per sentire che è lì, con lei. Intanto, la colazione è pronta. La “piccola” già urla per la fame. È irrequieta come quei neonati che aspettano la pappa se si è qualche minuto oltre l’orario previsto. Subito Angela le mette il bavaglino e le dice: «Aspetta, amore mio, il latte è bollente!». Soffia sulla bevanda cucchiaio dopo cucchiaio. Tiene tra le mani un tovagliolo che servirà ad asciugare le labbra della “bimba”. Pinuccia inizia ad agitarsi. Uno stuolo di strani movimenti. Un insieme contorto di grida. La “mamma” conosce bene i capricci della “figlia”. E, come se fossero una vera famiglia, le dice: «Se finisci di mangiare il latte, telefono a papà. Faremo una bella passeggiata in macchina e ti compreremo il gelato». La “piccola” non sente, ma pare che abbia capito tutto. Tra baci, carezze e canzoncine ha finito il suo latte. E Angela quel gelato lo va a comprare davvero.
La giornata continua. Angela e Pinuccia sono sedute su una comoda poltrona. Sopra di loro c’è un’icona della Madonna della tenerezza: Maria tiene tra le braccia il piccolo Gesù. Proprio come Angela stringe Pinuccia. Le due immagini sono uguali. Angela, grazie a una sordo cieca e muta è una “piccola” Maria dei nostri giorni.
Entrambe per me sono e restano madri e figlie della speranza. Luci bambine. Del passato che illuminano il presente. Mi hanno insegnato che ognuno di noi esiste e vive grazie alla relazione. Si perde la speranza quando si è senza relazioni.
Dalla loro cattedra ho imparato a cogliere la differenza tra la relazione e i tanto osannati legami che col tempo si trasformano in “pesi”. Dalle loro carezze, dal loro toccarsi imparo a scorgere i limiti che si addensano nei miei contatti sui social. A non divinizzare le collezione dei like. Sono “contatti” che possono rubare luce, acqua, aria e terra alla relazione. Col rischio di farci sentire drammaticamente soli. Individui in continuo ritiro o isolamento sociale.
Nel riaprire la mia mano scopro che c’è un’altra goccia della speranza. Brilla con potenza. Ha un nome: sinodalità. Ancora riesco soltanto a balbettarlo. Non ne conosco bene il significato. È un dono. Del mio Vescovo Giuseppe. Alla nostra Chiesa di Cefalù. A ogni suo presbitero. A ogni suo figlio. È nelle mani di ognuno di noi. La guardo e vedo che colora la mia mano come se fosse il mio domani. Sono certo che sarà la luce bambina del mio ministero. La goccia del disincanto. Dei sogni e dei bisogni. Dell’essenzialità. La stringo forte, forte. Ho paura che il fango di violenti acquazzoni estivi e invernali possano rovinarla, farla scomparire, farla scivolare.
Angela e Pinuccia mi hanno insegnato cosa fare per non lasciarsi rubare la goccia della speranza che disseta e riempie la vita. Quella lezione non è un film. Potrebbe continuare. Diventare un libro. Scritto con le tante altre gocce di speranza che coloreranno il mio domani. Il mio ministero. A partire dalla goccia “madre” della sinodalità.