Caro padre Puglisi,
alle 20.40 del 15 settembre del 1993 il tuo corpo si accasciava per terra. Lentamente e silenziosamente. Sulla lapide del tuo ultimo respiro rileggo la secca cronaca scritta dalla voce di Salvatore che ha sparato alla tua nuca: «Morì sul colpo. Senza neanche accorgersene».
In una manciata di minuti con un luminoso sorriso accoglievi insieme fratello Caino e sorella morte. Tendevi la mano all’assassino e allo Sposo. Per te le lancette dell’orologio della vita si fermavano. Bruscamente. Bagnate dal sangue della Verità. Stavolta senza quei dieci e più minuti di ritardo che facevano da cornice a ogni tuo appuntamento. Con una puntualità disarmante era giunta la tua “ora”. Sul finire del giorno del tuo compleanno; all’alba dei cinquantasei anni. Una coincidenza possibilmente pianificata a tavolino, a mo’ di un vandalico sfottò, da quanti tramavano una congiura contro u “parrinu” della chiesa di San Gaetano, contro il mio padre Puglisi.
Non ho dubbi, caro don, sapevi già da tempo che la tua “ora” era vicina: il quartiere di Brancaccio che ti aveva generato era la tua Gerusalemme con il suo Getsemani e il suo Golgota. Dai quali mai hai pensato di potere o volere fuggire. Eri inchiodato dall’amore per la tua gente. Come quel fragile e scarno Crocifisso ricavato con dei sottili fili di ferro che stava al capezzale del tuo letto. La tua crocifissione è durata all’incirca tre anni. Il legno della croce lo hai abbracciato quel 29 settembre del 1990. Quando, per ubbidienza, hai proferito il tuo sì al cardinale Pappalardo che ti chiedeva di pascere il gregge di Brancaccio. Lì hai trovato tanti compagni di viaggio. Permettimi di chiamarli tuoi discepoli. O meglio, per non farti arrabbiare, discepoli del Tuo Maestro.
Sei stato un pescatore di uomini anche fuori dalle acque pulite e inquinate del mare della tua parrocchia. Hai gettato l’amo della tua schiacciante umiltà lungo gli scogli degli istituti scolastici dove hai insegnato. Con l’esca dell’autenticità e la canna della semplicità hai saputo scovare e portare a riva tanti ragazzi, giovani; professionisti e povera gente. Sei stato un talent scout capace di fare scendere sul campo dove si giocavano le partite della lotta all’analfabetismo e della legalità i migliori giocatori. A tutti hai fatto indossare le tue magliette preferite, quelle dell’eleganza nella relazione, dell’attesa per il risultato finale, della prudenza nel non oltrepassare la linea bianca del campo delle regole della vita, del servizio libero e benedicente come il tuo sorriso. Partite che talvolta erano interrotte da un fischio che faceva zittire tutti: quello di una misurata e intelligente comicità. Smorzavi certe fatiche, le addolcivi col racconto di barzellette, tante anche sui preti. Intervalli attesi perché consegnavano i rintocchi della vita fraterna. Per tanti dei tuoi ragazzi una scoperta che non aveva prezzo. Bisogna dirlo. Gridarlo ad alta voce. Tutti loro col tuo martirio, la tua eterna vittoria, sono diventati gli allenatori di nuovi giocatori. Un mandato che continua le consegne.
Caro don, non voglio farti arrossire o infastidire, però permettimi che ti dica che sei stato un coach di prima classe per diversi studenti, li hai portati alla scuola del Vangelo, li hai fatti sedere tra i banchi della carità e solidarietà. Senza alcun distanziamento sociale. Alcuni li hai condotti perfino sull’alto monte delle Beatitudini della tua Brancaccio: il Centro Padre Nostro. Con un semplice invito. Senza alcun video promozionale. Li hai presi per mano. Da vero educatore. Da padre. Non da “padrino”. Sei stato un padre anche tra le mura del Seminario di Palermo. Ricordo l’ultimo incontro dell’anno formativo. Lo hai iniziato e concluso con un canto Ecco sto alla porta e busso. Tanti non lo conoscevamo. Lo hai insegnato. Ci hai distribuito delle fotocopie per leggerne il testo. Non ci aveva entusiasmato. Forse ci sembrava una canzoncina adatta ai bambini. Non per candidati al presbiterato.
Oggi, dopo ventisette anni, la considero “l’arrivederci” ai tuoi seminaristi. In modo velatissimo ci annunciavi la tua morte. Scegliendo un canto. Come un padre con i suoi bambini. Lo eravamo. Infatti, dovevamo ancora finire il primo anno di teologia. È stato un saluto dalle note profetiche. Lo avevi scritto chissà quanti mesi prima tra le righe di un pentagramma, quello della tua passione. La sua musica l’hai nascosta nel silenzio del tuo corpo e della tua anima. Saggiamente. Quasi a tutti. Con le sue pause rivestite da laceranti e sferzanti inquietudini che ti avranno fatto vegliare per notti intere. Ore riempite dalla Sapienza che allagava il tuo intelletto e nutriva la tua fede e il tuo ministero. Sapienza divina. Quella che possiede solo chi, come te, scrutava e meditava la Scrittura giorno e notte. Penso alle lunghe ore che hanno trasformato la tua stanza in un nuovo orto degli ulivi che dalla Palestina si era trapiantato in un angolo della nostra Palermo. In quell’orto anche dalla tua fronte più volte saranno scese giù gocce di sudore che bagnavano insieme a copiose lacrime pastorali il tuo bianco cuscino.
Dopo pochi mesi, infatti, davanti alla porta della tua casa Qualcuno veniva a bussare. Ti ha portato in una stanza che non ha pareti. La chiamiamo Cielo, Paradiso, Eternità. L’azzurro di questo Cielo tu, caro padre, ce lo hai fatto intravedere in ogni Eucarestia da te presieduta e che abbiamo celebrato insieme. Il tuo volto, il tuo corpo sembravano trasfigurarsi. L’Eucarestia era il tuo Tabor. Diventavi luminoso. Raggiante. Lo erano i tuoi occhi, il tuo sguardo, ogni tuo gesto. Anche le casule che indossavi con una solennità divina sembravano inondarsi di luce. Il tuo parlare, la tua voce aveva tutto il sapore della mitezza. Non c’era fretta. Ogni frase pronunciata si concludeva con un tenero sorriso. Come il punto che mette fine a ogni proposizione. Il tuo occhio era penetrante, acuto, cristallino. Contemplava il Volto del Maestro presente nel Pane che spezzavi. Si assisteva a un incrocio silenzioso di sguardi. Impastato solo di silenzi. Senza la brezza piacevole e ruffiana di possibili forme di pseudo-misticismo o le calde ondate dello scirocco del devozionismo. Imperava il Silenzio dell’eternità che parlava alla storia, al cuore di ciascuno. Senza filtri.
Mi hai insegnato che si inizia ad amare la Chiesa dall’altare. Dallo schermo del mio computer mi fermo a guardare qualche tua foto. Sei sempre in azione pastorale o ai bordi di un altare, anche improvvisato. Sei sempre in piedi. A te, caro padre Pino, al termine di questa lettera affido una laboriosa preghiera per il cammino di tutta la nostra Chiesa. Perché stia all’impiedi. In un momento tanto delicato. Dove i propositi, i progetti più belli devono misurarsi con un virus che cammina con noi e che uccide. A volte, siamo impreparati, non sappiamo se scegliere il lento passo della lumaca o quello celere della lepre. Ascoltiamo possibilmente tante belle voci confuse in un playback, dove potrebbe mancare la voce dello Spirito Santo.
A te, chiedo di intercedere presso il Padre Nostro affinchè sappiamo essere Chiesa generata dalla Parola e discepoli in ascolto lungo le strade. Come lo sei stato tu per le vie di Brancaccio, in modo specialissimo, quella sera del 15 settembre del 1991, davanti il portone di casa tua, sul piazzale Anita Garibaldi. Lì abita il tuo cuore. Col suo sangue che nessuno riuscirà ad asciugare.