Caro Gesù Bambino,
Lo scorso anno Ti ho cercato. Con cocciuta insistenza. Avevo pensato di farti abitare, alle porte del Natale, tra le case dei bambini della mia parrocchia. Mi ero persuaso che Tu saresti stato il mio regalo per ognuno di loro. Mi proponevo di rompere il silenzio delle abitudini di un seducente mercato che, con le sue strenne natalizie, ha creato uno iato voraginoso col significato del Natale cristiano. Con l’Essenziale.
T’immaginavo come quella “Goccia” che con la sua acqua sarebbe riuscita a bagnare il seme dell’anima dei genitori. Di tanti adulti che passeggiano in lungo e in largo per le strade del tempo senza mai calpestare l’Eterno. Pensavo a una pioggia “bambina” o, meglio, a una pioggia di grazia che attraverso una Tua icona avrebbe raggiunto tanti. In Te, caro Gesù Bambino, il nostro Dio ha ricamato tutti i segreti del Suo amore. Del Suo cuore. Chiedevo di Te alle gentilissime commesse dei tanti negozi di due mega centri commerciali. La risposta, costantemente accompagnata dal tocco dell’eleganza, era sempre la stessa: «Ci dispiace, qui non ne abbiamo». Mi bruciava il petto. Avrei preferito che mi si dicesse: «Sono finiti». Avrei trovato ristoro di fronte a un sognato e atteso: «Li abbiamo venduti tutti». Invece, era come se mi ritrovassi ad ascoltare e riascoltare il testo di un inquietante referto medico sulle condizioni di salute del cristiano.
Nei templi del benessere, nelle cittadelle più popolate e più “illuminate” per gli acquisti natalizi non c’era posto per il “simbolo” della Luce. Quella vera. Ero quasi intontito. Soprattutto quando i miei occhi vedevano tra gli scaffali delle profumatissime boutique alberi di plastica e di specie differenti, candele di ogni forma e di diversi colori, babbi Natale di ogni taglia, mucchi di stelle filanti, angeli e angioletti dalle mille facce. C’era di tutto. Anche quei bastoncini che, una volta accesi, mandano in circolo gli orientaleggianti profumi d’incenso. L’unico eterno assente, caro Gesù Bambino, eri Tu.
In quelle stanze del regno della globalizzazione, dell’evaporazione dell’essenziale, per Te non c’era posto. Ma non basta. Non c’era più nessuno disposto ad accoglierti. Le scorrevoli porte delle “locande” del perbenismo e del consumismo con apertura e chiusura automatica non consentono l’accesso agli “scarti”. E Tu, caro Gesù Bambino, sei stato e sei “uno scarto”. Facciamo fatica, purtroppo, a comprenderlo bene nei nostri ambienti ecclesiali e parrocchiali, tra le potenti mura delle nostre basiliche e cattedrali. Ad alcuni piace, infatti, proprio la notte del Natale, coprire la tua nuda povertà con eleganti e pregevoli drappi, addirittura intessuti d’oro. Una sorta di reality o di fiction agiografica che cerca di addolcire una scomoda verità storica che potrebbe farci arrossire di fronte a certe fughe o corse sulla rotta di incassi o guadagni che calpestano la dignità dei poveri. L’urlo per noi continuamente “muto” degli ultimi.
Dopo un anno, caro Gesù Bambino, ritorno a cercarti. Per farti conoscere. Per donarti. Stavolta non percorrendo le ricche gallerie dei centri commerciali e neanche attraverso l’acquisto di icone. Quell’esperienza fallimentare ha fatto fuori uno stile matematico di vivere la fede, con le sue pallide metamorfosi commerciali. Ha morso il mio orgoglio. Ne restano le dentate. Racconterò ai miei bambini e ai nostri fratelli dove Ti ho incontrato, dove i miei occhi Ti hanno incrociato nei giorni amari della pandemia.
L’altro ieri mi sono ritrovato alle porte del camposanto a benedire la salma di un marito e padre falciato dal Coronavirus. Osservavo le lacrime composte che scorrevano dagli occhi della moglie e dei figli. Ne rigavano gli stanchi volti. A tratti era come se si fermassero con i loro respiri. Avevo introdotto la preghiera del Padre Nostro. Un freddo strano, intanto, arrivava alle mie mani. D’istinto posai il mio sguardo sulle mani di uno dei figli. Vidi che si aprivano lentamente. Delicatamente. Con una eleganza e compostezza che erano il riflesso di un’anima che apriva il suo cuore alla Paternità di Dio. Erano la voce visibile di quel pregato e balbettato “sia fatta la Tua volontà”. Ti consegnavano la pace che vive il cristiano che crede nell’eternità. Quelle mani che continuavano a restare aperte mi invitavano a guardare al domani confidando nell’aiuto del Signore. Continuavo a fotografarle. Con i miei occhi. Nella mia memoria. Erano il sigillo di un atto di fede che abbracciava tutta la storia della salvezza. Appiccicata alla loro pelle, era incisa una verità immutabile che va ricordata: erano anche le mani di quel figlio che non aveva potuto toccare, accarezzare quelle del papà costretto a morire desiderando stringere una sola di quelle mani.
Della Tua icona, caro Gesù Bambino, mi ha sempre fatto sorridere quella pioggia di capelli biondi o castani che stanno sul Tuo capo, mentre mi hanno sempre invitato alla riflessione e a sapienti domande le Tue mani. Quasi sempre aperte e che guardano verso l’Alto. Mani “bambine”. Quelle che cercano l’Amore e che frugano la verità. Ora forse sarà più semplice comprendere perché nelle mani di quel figlio distrutto dal dolore ho visto le Tue stesse mani. Ci è più facile vivere il tempo della pandemia sotto i riflettori della cronaca. Del “tutto scorre”. Del definire la sofferenza e la morte di migliaia e migliaia di persone prima ondata, seconda ondata. Del pensare egoisticamente che si possa andare avanti indossando la leggera mascherina dell’illusione.
La pandemia, invece, scrive le pagine della storia. Della nostra storia. Anche della storia della Salvezza. Voglio incontrarTi, ancora caro Gesù Bambino, “toccando” anche con i soli occhi i segni della tua presenza. Quella che trovi negli uomini che restano bambini come Te. Con le mani che abbracciano la storia.