La maschera anticovid con l’effigie di Paolo Borsellino indossata da Matteo Salvini alcuni giorni fa, in visita al luogo dell’attentato nel luglio del 1992 in cui persero la vita il giudice e gli uomini della sua scorta, è l’ennesima – secondo i più – ostentazione di simboli, in chiave di “marketing politico-elettorale”, del leader leghista. Un modo per strizzare l’occhio a seconda del luogo, delle presenze (o delle assenze), delle ricorrenze, richiamando alla mente quei ragazzi che cambiano compulsivamente le cover dei telefonini in base alla serata organizzata e a cui partecipano. In effetti, l’ostentazione dei simboli da parte di Salvini è stata una scelta ben precisa a cominciare dalle felpe (e poi, da ultimo, con le più versatili mascherine) che ne hanno fatto, di volta in volta, un poliziotto, un vigile del fuoco, un assaggiatore seriale e compulsivo della più caratteristica sagra. Eccoci al dunque, però: il rischio è quello di non comprendere più, a un certo punto, quale sia la differenza (e la distanza) tra un momento e l’altro, tra un luogo e un altro, tra una ricorrenza e l’altra, tra un nome (e la sua storia) e un altro; il rischio è di “commercializzare” tutto a favore di telecamera, indistintamente e quando si cerca di assumere una identità dopo l’altra, si può finire col non averne più una, limitandosi a fiutare l’umore e a indossarlo.

C’è chi pensa, al contrario, che quello di Salvini sia stato un gesto per il quale sono risultate eccessive le critiche; in fondo, ha indossato l’immagine dell’eroe trucidato in quella strada, ancor più se si considera che certi simboli non appartengono solamente a una parte del popolo italiano (e ai rispettivi rappresentanti); anzi, tutt’altro. Vi sono simboli che sono patrimonio dell’umanità, patrimonio immateriale, collettivo proprio perché hanno da insegnare e proprio perché diventano punti di riferimento e un bagaglio culturale e civile ancor più importante nei periodi di vuoti istituzionali, politici e morali.

Come nel caso di Paolo Borsellino, che era uomo delle istituzioni e che, però, sceglieva, chiedeva, pretendeva un profilo basso. Che, senza essere tifosi pro o contro, è proprio ciò che manca a Matteo Salvini. Da qui il coro indignato che si è sollevato per cercare di far capire che la memoria non è orpello, men che meno gadget.

Ma se il senso dei simboli antimafiosi può toccare queste punte d’iceberg è pure vero che viene da lontano l’averne fatto scudi o schermi o viatici per carriere e prebende, ponendo un problema (certamente non solo di etica) che proprio su questo terreno amplifica i suoi contorni: la forma che si fa sostanza perdendola di vista, la forma che non rispecchia la sostanza, la forma che immiserisce ciò che rappresenta. E questo a causa di certa antimafia che ha, alla fine, determinato un danno incalcolabile, aprendo la strada alla banalità dell’ostentazione, rischiando di allontanare dagli esempi, dai significati, dai contenuti intere fasce di popolazione, interi quartieri, intere categorie.

Occorre, allora, ritornare al basso profilo e a dare alla forma e alla sostanza il giusto peso: perché in certi discorsi e in certi contesti contano tanto l’una quanto l’altra e non ci si può più permettere di svilire sia l’una che l’altra. Non lo meritano, primi fra tutti, proprio quei simboli, quelle icone ormai patrimonio condiviso.