In tanti oggi utilizziamo il termine sinodalità. Forse anche un po’ troppo. Parlarne fa tendenza negli ambienti ecclesiali. Consegna un nuovo look ai “sempre verdi” piani pastorali. Va di moda. Come la minigonna negli anni sessanta, gli scarponi Timberland a metà degli anni ottanta, il colore rosso cardinale in questa primavera. Le mode sono fenomeni sociali che sanno solo di fast food. La sinodalità non potrà mai essere una moda. Perché è un cammino. È questo il primo serpeggiante “muretto” che tutti dobbiamo bypassare.
Così ce l’ha presentata Papa Francesco nel 2015 a Firenze nel discorso di commemorazione per i cinquanta anni dell’istituzione del Sinodo dei vescovi: «Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio». Inoltre, il Pontefice, riflettendo sul valore della sinodalità, nell’udienza dello scorso 25 novembre ha parlato: «Di strada sinodale che noi dobbiamo fare». Alla strada e al cammino si lega la cultura. Ecco perché ritengo che sia straordinariamente bello e azzeccato parlare di cultura della sinodalità. Potrebbe essere quasi una sorta di endiadi profetica ecclesiale e pastorale di matrice conciliare e bergogliana.
Ma affinché la sinodalità diventi cultura nel cammino della Chiesa c’è un secondo “muraccio” da scavalcare, quello della monarchia-dittatura dell’ascolto. Esigere di essere ascoltato senza poi provare ad ascoltare l’altro; il punto di vista dell’altro. La cultura della sinodalità riceve solo dall’ascolto dell’altro, di ogni battezzato, il suo primo “sacramento”, il suo “ eterno battesimo”. Si tratta di un ascolto “sacramentale” che sia capace di irradiare dall’albo della comunicazione il diabolico “per finta”.
Chi ascolta l’altro abita l’attico del grattacielo della comunicazione. Quel grattacielo sempre in costruzione i cui piani non riusciamo più a contarli. Perché infiniti. Virtuali. Spesso anche invisibili. Dall’attico dell’ascolto impari col passo della lumaca che ascoltare è comunicare. Ascoltare è la prima pagina della comunicazione. Così poi impari anche che comunicare è servire. Un cammino faticoso, ricamato dai fili dorati e argentati dell’umiltà e della pazienza. Un cammino che non ammette corse, fughe in avanti. Sbavature. Solo passi sinodali che spianino percorsi sinodali.
Non è facile ascoltare l’altro. Non è per niente facile ascoltare i giovani. Dalla giostra sempre in movimento del nostro orgoglio ci siamo convinti che debbano essere i giovani ad ascoltare gli adulti. Un gioco furbo e quasi egoistico di ruoli. Un secco e sterile pretendere di essere eternamente maestri. A tal proposito, mi è stato raccontato che un parroco parecchio avanti negli anni chiese a don Giuseppe Dossetti di donargli un consiglio che potesse essere prezioso e fruttuoso per la sua attività pastorale. Il monaco di Montesole lo esortò ad ascoltare i giovani che gli stavano attorno e a fare in modo che diventassero “la voce della sua coscienza”. Gli ha donato i semi da spargere nel campo del suo ministero per iniziare a “coltivare”la cultura della sinodalità. A partire dai giovani.
I giovani degli anni del Covid-19 appartengono tutti alla generazione dei nativi digitali. Per tanti di loro lo smartphone rappresenta il palinsesto della loro esistenza online tra le stanze di Facebook, Twitter, WhatsApp, Instagram, Skype, Tik Tok. Amano tanto narrarsi, rappresentarsi, condividersi. Hanno dato vita a quella tendenza, spesso anche morbosa, a mostrarsi, a diventare immagine, video. Quella tendenza a mettersi in scena. Il Professor Pier Cesare Rivoltella l’ha definita una retorica dell’esposizione. Sul web postano tutto. È il loro ambiente sinodale. Soltanto digitale e virtuale. Tutto questo pare che inizino proprio a comprenderlo. Con tiepida consapevolezza. Soprattutto a causa delle indescrivibili rinunce che la pandemia impone loro: niente abbracci, baci, gite, partite a calcio, movide, feste tra amici.
Il Coronavirus ultimamente ha dato una battuta d’arresto alla crescita digitale in tutte le sue forme con la riscoperta o scoperta del potere fenomenale della prossimità fisica. I nostri giovani scorgono così i limiti dei contesti esperienziali, delle dinamiche sociali e degli stili comunicativi che regolano e governano l’ambiente digitale. Ne ho avuta un’illuminante conferma nella scattante risposta datami da un giovane, un caro amico e anche il mio “maestro digitale”. Alla collaudata domanda del «Come stai?». Ha fatto eco un grido che traghettava sulla mia coscienza la sofferenza di una vita quotidiana per certi aspetti fortemente “asinodale”. «Il mio, il nostro è uno stare pandemico». Mi sono trovato improvvisamente di fronte ad un’altra nuova endiadi, sociale e comportamentale. Di matrice umana e virale. Lo “stare pandemico” ha evidenziato il bisogno relazionale e comunicativo della cultura della sinodalità. Ma non basta. Ci sta inducendo a guardare alla cultura della sinodalià come il presidio più potente contro l’analfabetismo della comunicazione e della comunione.
Dalla risposta del mio giovane amico ho imparato che la cultura della sinodalità è fatta di tante briciole di noi. La vera sinodalità è l’impasto ordinato di tante molliche di noi. Messe insieme generano il pane dei cambiamenti. Sono molliche che non possiamo fare ammuffire nelle nostre tasche. Sono i talenti, le voci di tutti. Quello “STARE PANDEMICO” del mio giovane “maestro digitale” ha lasciato una scia nella mia anima. Nella mia coscienza. Di parroco.
Ho pensato ai nostri giovani, al loro modo di abitare il mondo della fede, di viverla, di celebrarla e di comunicarla. Li ho associati subito a Tommaso, al discepolo assente quando il Risorto apparve agli undici. Lo abbiamo incontrato la seconda domenica di Pasqua nella pagina del Vangelo di Giovanni. Sappiamo che era da tutti chiamato Didimo, il gemello. Vorrei che imparassimo a chiamarlo Tommaso “il sinodale”. Lo abbiamo conosciuto come il discepolo dei dubbi. Proviamo ad accostarci a Lui pensandolo per un attimo come il discepolo che chiedeva al Suo Maestro e ai suoi compagni un cammino che fosse prima di tutto sinodale. Ai dubbi di Tommaso sostituiamo il suo desiderio di essere discepolo del Risorto a partire dalla cultura della sinodalità.
Tommaso sia per noi anche l’icona del discepolo che ha desiderato ardentemente la sinodalità. Quella bella. Quella vera. Non quella, magari, postata sui social a mo’ di un raccontino da tramandare, con le immagini del già visto da me per essere poi condiviso dagli altri. Tommaso ha ascoltato gli undici, ma non si è fermato a un accogliere una sinodalità che fosse per lui soltanto virtuale. Non ha scelto la via della partecipazione a bassa definizione o della sinodalità leggera che passa attraverso un semplice like. Lui l’aveva assaporata in presenza, ascoltando la parabola della pecorella smarrita. Ne aveva intuito il fallimento nel monito “ogni regno diviso in se stesso va in rovina”. Pertanto, chiedeva al Suo Signore di testimoniargli ancora una volta il Suo essere il Maestro della sinodalità. Stavolta da Risorto. E Gesù ha ascoltato la sua preghiera. Ritorna tra gli undici e si ferma davanti a Tommaso.
La sinodalità, la cultura della sinodalità ha bisogno di testimoni. Non solo di maestri. Ce lo ha testimoniato il Cristo Risorto. Ce lo chiedono i tanti giovani “Tommaso”della generazione Covid 19. Nel tempo dello “stare pandemico”.