Ho sempre creduto con fermezza nella maternità della Chiesa. Quella maternità che non si lascia inquinare dalle tossiche nubi di potere, che osano riempire di oscuro grigio l’azzurro vivo del suo firmamento. Da quei diversi “Caino” che alzano la mano contro i fratelli più “piccoli”, contro quella schiera di “Abele”, miti, indifesi, disperati. Alzano le mani per uscire dai fondali della schiavitù, dello sfruttamento, del male. Della morte annunciata.

Ho visto le braccia della Chiesa aprirsi sui dolori del mondo, le sue mani accarezzare e curare le ferite degli ultimi. Sollevare dal nero fango dell’ingiustizia i figli delle periferie del mondo, che mostrano alle nostre coscienze un orologio. Quell’orologio le cui lancette ci segnalano che l’ora della vergogna ci sta sempre dinanzi.

Ho ascoltato la sua voce che, nelle tempeste più violente e inaspettate, non ha mai smesso di donarci le note, i suoni e la melodia della speranza. Al tempo della pandemia, la “madre” Chiesa vuole ancora stupirci. Come solo le mamme riescono a fare. Ci presenta un figlio specialissimo: Rosario Angelo Livatino. Addirittura arriva a donarcelo con lo “scomodo” titolo di beato. Fortemente scomodo solo per noi. Ci tocca, infatti, assumere la non facile e fuori moda postura dei figli per conoscere questo fratello maggiore. Ci tocca salire con le nostre gambe arrugginite, gli ultimissimi gradini della scala che poggia sulle pareti dei ventricoli e degli atri del suo cuore di madre. Sì, perché i beati e i santi sono quelli che stanno più in alto. A noi il travagliato compito di iniziare questa scalata. Per osservare. Per contemplare. Per imitare.

Nella beatificazione di Saro e, ancora di più, nelle scelte della sua vita vi scorgo la via “stretta” che la Chiesa ci addita per non permettere ai suoi figli che il tempo della pandemia diventi il tempo dell’isolamento, dell’individualismo, delle martellanti paure, delle speranze mascherate. Il tempo che consenta al peccato, al male e a ogni forma di criminalità organizzata, di accovacciarsi alle porte delle nostre comunità. Non è un dettaglio da ripostiglio la proclamazione a beato del giudice “ragazzino” nell’anno dell’emergenza legata al Coronavirus e alle sue costanti varianti. Nell’anno in cui ogni corsa pastorale ha avuto il suo forzato arresto, i gruppi e i movimenti delle sofferte prigionie, le pie devozioni e tradizioni che entusiasmano il popolo una loro temporanea cancellazione dagli inamovibili palinsesti pastorali delle feste dei santi. Vi è senz’altro a monte una sapiente e coraggiosa scelta pastorale-spirituale. La Chiesa ci vuole educare a rendere attuale e più evangelico il culto dei santi: roccaforte inespugnabile di fedeltà, di sicurezza per tutti e a volte anche occasione di incassi ragguardevoli.

Rosario Livatino, tra le norme del quotidiano distanziamento sociale, degli altalenanti isolamenti e delle chiusure colorate, è il beato dell’amicizia sociale: ha sempre saputo ascoltare la persona che gli stava di fronte, fosse anche un criminale. Non ha mai calpestato la dignità di nessuno. Era solito all’inizio di ogni processo dare la mano a ogni imputato. Ha visto tutti come fratelli. A un poliziotto che manifestava un pavoneggiante compiacimento per l’uccisione di un mafioso, il giudice lo ammonisce severamente così: «Chi crede prega. Chi non crede sta in silenzio».

Leggiamo le pagine della breve vita di Livatino non a mo’ di rifioriti fioretti agiografici, non come eventi da annoverare negli archivi della tetra cronaca mafiosa. In esse vi sono delle scelte ragionate e pregate che hanno ricevuto solo dal Vangelo e dal Crocifisso, sempre sulla sua scrivania, la luce e la forza per diventare gesta, azioni non contaminate dal caso, da misture di compromessi politici, sociali, culturali, familiari. Scelte che portano l’impronta di Dio. Proviamo a “calpestarne” con infinita delicatezza qualcuna. Onorati di poterlo fare.

Nel frontespizio della sua tesi, dopo la dedica ai genitori, compariva per esteso la scritta Sub Tutela Dei. Era il nove luglio del 1975. Da quel giorno le tre lettere siglate, S. T. D., le troveremo scritte in rosso in tutte le agende annuali. Il neo dottore aveva intuito perfettamente che, con la brillante laurea in giurisprudenza, si chiudeva, per certi aspetti, il tempo della sua vita “nascosta” a Canicattì, la sua Nazareth. Dove era stato custodito dalle cure di mamma Rosalia e di papà Vincenzo e cresciuto culturalmente tra i banchi del liceo classico.

La luce della Verità che già infiammava la sua coscienza di uomo e di cristiano, con l’ingresso nel mondo della magistratura, lo conduceva pian piano tra le mura dei palazzi di giustizia prima di Caltanissetta e poi di Agrigento, la sua Gerusalemme.

Saro non teme la sua morte. A essa si prepara come all’ultimo e personalissimo atto di ubbidienza a Dio. L’arrivo, già messo in conto, l’ha nascosto al cuore del suo prossimo. Un nascondere per proteggere la vita dell’altro. Ha rinunciato alla scorta, alle auto blindate per non permettere ad altri padri di famiglia di subirla a causa sua. Ha chiesto ai superiori di affidargli i processi più pericolosi per custodire i colleghi sposati. Ha eclissato il sogno di una moglie e dei figli per non lasciare una vedova e degli orfani. Ha protetto gli anziani genitori da ansie e tremori nascondendo accuratamente i laceranti e incalzanti travagli interiori che gli facevano da ombra in ogni movimento del corpo e dell’anima. Non ha mai fatto richiesta di trasferimento. Si muove, è in cammino verso Gerusalemme. Decisamente.

Le tante notti insonni avranno trasformato la sua stanza in un pezzo dell’orto degli ulivi. Sicuramente Saro sentiva i passi e le voci dei suoi Giuda. Sicuramente avrà bagnato le lenzuola con le tiepide gocce del sudore della sua pelle. Quelle gocce che erano le lacrime silenziose di tutto il corpo. Quelle lacrime che i suoi occhi nascondevano a tutti. Quelle lacrime conosciute solo dagli occhi di Dio. Un vegliare a occhi aperti. Un chiedere a Dio la Sua protezione nel lavoro di giudice. Questa, anche tra le mura del suo Getsemani, non è mai stata una supplica intimistica e pietistica tesa a scansarlo dalla morte di una mano assassina. Un grido martellante e stordente che si trasformasse in un’assicurazione salvavita. Gli orizzonti sono altri. Il cultore dell’amicizia sociale chiedeva di porsi sempre e solo, sotto lo sguardo illuminante di Dio e della sua grazia, per sapere giudicare correttamente il fratello.

Ne troviamo delle rocciose conferme in alcune dichiarazioni e scritti. A soli quindici anni in un tema in classe scriveva: «Leggendo e comprendendo la Bibbia, l’uomo ne riceve i migliori consigli perché la sua vita spirituale si svolga serena e senza compromessi, e chi ha spirito pacato affronta la vita con un coraggio e una abnegazione che ogni ostacolo viene eliminato». Ancora, il diciotto luglio del 1978, il giorno del suo eccomi ufficiale al servizio della giustizia, annotava nell’agenda: «Ho prestato giuramento. Da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige». Più avanti negli anni dirà ancora: «Il compito del magistrato è quello di decidere. Scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».

Proviamo a “calpestare” gli ultimissimi passi dell’ultima corsa di appena ottanta metri del nostro beato. Siamo sulla statale tra Canicattì e Agrigento. Saro, raggiunto da una prima pioggia di proiettili, lascia la sua Ford Fiesta addossata al guardrail. Perde, nel saltarlo, il mocassino del piede sinistro e gli occhiali. Lo hanno già raggiunto tre colpi di pistola. Ma di fronte al volto crudele degli assassini, non perde la forza di fare quell’ultimo salto di qualità che per lui univa giustizia e fede, il magistrato e il cristiano. Fino all’ultimo respiro, versando il suo sangue, vuole restare fedele al suo credo che metteva insieme il diritto al Vangelo: «La giustizia è necessaria, ma non è sufficiente e, può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore verso il prossimo e verso Dio». «Gesù ha elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta, perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano».

Le ultime parole sono quelle proferite al termine della corsa della sua vita sul letto del torrente San Benedetto: «Cosa vi ho fatto, picciotti?». Una domanda. Quella che unisce la verità alla carità. Quella che invoca la redenzione, ma che invita alla conversione. Li chiama picciotti. Li riconosce e li invita a riconoscersi come coloro che sono la manovalanza della mafia. Sono degli esecutori. Devono e possono ravvedersi. Lui ha fatto solo il giudice. Il giudice cristiano. Fino alla fine.

Grazie alla Chiesa, madre e maestra, dal 9 maggio 2021, festa della mamma, ho incontrato, leggendo la sua biografia, il beato Rosario Angelo Livatino. Da Lui ho imparato che la preghiera è solamente amore. Da cercare anche quando e dove cade il sole. Questo per il “giudice ragazzino” lo hanno cantato Gli artisti riuniti in una bellissima canzone che vi invito ad ascoltare. Da cantare come una preghiera.