Le nostre chiese vivono le loro stagioni. Dai gelidi inverni si passa alle fiorite primavere. Dalle torridi estati ai malinconici autunni. Sanno stare sedute. Sanno camminare. Il sinodo chiede alle Chiese di alzarsi, di alzarci e di camminare. Le sue gambe sono il tempo, o meglio, la storia e il popolo. Tutto il popolo di Dio. Un vero sinodo abbatte quel vecchio muro che lo divide in clero e laici. Fa inoltre a pezzi quelle porte chiuse che hanno creato le stanze o gli appartamenti dei tradizionalisti, dei progressisti. L’area di destra, di centro e di sinistra. Demolisce quelle caotiche sale d’aspetto abitate dai poco allineati, da chi ha la coda di paglia, da chi è rimasto aggrovigliato tra le matasse del tempo dei rimpianti o della sola stagione ribelle. Come anche gli attici dei crumiri pastorali o degli scrutatori non votanti, di quanti, pur avendo diritto al voto, lasciano la scheda bianca.

Col nuovo anno pastorale, per la nostra seconda tappa del sinodo vorrei umilmente provare a suggerire qualche possibile percorso pastorale e sinodale che generi o favorisca un coinvolgimento ancora più pieno e responsabile dei laici delle nostre comunità ai lavori del sinodo diocesano. Percorsi dove sia in movimento tutta la gamba del popolo di Dio, dal ginocchio al piede. Senza alcuna frattura, lesione o rigonfiamento tra laici e clero. Un coinvolgimento armonico, corale che consegni alla storia il vero volto della Chiesa. Dove tutti siamo popolo di Dio. Faremmo un bel salto di qualità se, dopo la ricca e entusiasmante fase formativa, il sinodo fosse vissuto come quel cammino “a due gambe” in cui la prima gamba attraversi le vie del tempo e della storia col passo dei figli di Dio, dei discepoli del Cristo. Le mie riflessioni restano delle semplici scintille “bambine”.

Bisogna instillare o rafforzare nelle coscienze di presbiteri e laici la consapevolezza che siamo tutti popolo in cammino. I nostri laici possono fornirci preziosi contributi. Possono additarci i bisogni e le necessità per un cammino di fede che sia più ancorato alla verità storica, ai tanti e repentini cambiamenti sociali e culturali sempre in movimento. Possono diventare i nostri navigatori per giungere alla scoperta delle sedi dove si annidano i segni dei tempi. Quei segni dei tempi tanto citati e predicati, ma spesso cercati soltanto tra le mura delle nostre sacrestie, dei nostri oratori e locali parrocchiali. Ci illudiamo, in questo nostro tempo, di poterli visualizzare anche tra i siti e le pagine Facebook di parrocchie e diocesi. Le nostre letture corrono il rischio di essere virali, veloci ed epidermiche. Talvolta, purtroppo, l’entourage di definita e stabile matrice ecclesiale fatica, da solo, a cogliere i travagli e le speranze del cristiano e dell’uomo di questo tempo. Le nostre letture del presente restano anche parziali e frammentarie, spesso ingabbiate tra le sbarre di una formazione teologico-pastorale che, nonostante il rispettabile e qualificato taglio accademico, presenta il limite di essere accompagnata da aggiornamenti limitati e tiepidi. Da scrivania. Non da strada. Con iI limite incalzante di non riuscire a generare pastori che vogliono sentirsi addosso il profumo delle pecore.

Il sinodo può fare scoccare “l’ora” della fine definitiva e completa del “distanziamento” ecclesiale e pastorale tra laici, clero, religiosi, consacrati e scandire quella del nostro camminare insieme. Tutti. Col passo del popolo di Dio. Dobbiamo andare alla ricerca delle possibili cause che hanno dato vita e che alimentano questo distanziamento, talvolta muto e mascherato. Con reciproche resistenze, diffidenze silenziose e una fiorita schiera di apatie ligth, moderate e forti. Una sua possibile fecondazione e conseguente sviluppo si potrebbe intravedere negli anni vissuti in seminario dal candidato agli ordini sacri. Come ben affermava don Mazzolari: «Il clero attraverso la formazione del seminario diventa sempre più “separato” e meno popolo, anche se proviene dal popolo, come è tutt’ora». I lavori sinodali potrebbero essere la via maestra per riattivare i contatti col popolo, per correggere o sanare quel distacco “signorile” che, con formule differenti ma mai azzerate, si mastica nella quotidiana vita dei futuri presbiteri. Urge per il popolo ritrovare un linguaggio cristiano ed evangelico, come urge per il clero conoscere la lingua del popolo. Dicotomia, separazione che può leggersi analizzando i modus comunicandi con i quali il clero abita il mondo della rete. Confezioniamo talvolta rap pastorali-spirituali sempre sullo stesso brano strumentale che pochi, purtroppo, riescono ad ascoltare e comprendere.

L’altra gamba del sinodo è quella del tempo. Il tempo è irripetibile. Per la nostra Chiesa di Cefalù è questo il tempo del sinodo. Ce l’ha “gridato” il nostro Vescovo Giuseppe con la sua profetica determinazione: non ha temuto blackout pastorali e lockdown sociali anche nel tempo più doloroso della pandemia. È questa l’ora del cammino sinodale. “A due gambe”. Il passato, anche per la Chiesa, è una droga. Ammaliati dalle umane nostalgie, in più occasioni abbiamo scelto di restare parcheggiati tra le cime dei nostri campanili e relativi campanilismi. Abbiamo preso “a noleggio” la macchina del tempo. Specialmente o esclusivamente in quelle occasioni che sembravano volerci strappare i segni dorati del potere. Segni che oggi appartengono ai resti rivestiti di polvere di una scenografia che con Papa Francesco sta vedendo un lento ma progressivo declino.

La seconda gamba, quella del tempo, col suo passo deve rendere il sinodo “l’ora” di quell’attesa “sanatoria” che sappia dare voce alla Parola di Dio tra le mura della storia, di questo tempo. Col cemento e i mattoni della storia e l’acqua della profezia che ha come sorgente zampillante la Parola, il sinodo, senza alcun “condono”, può essere “l’ora” del tempo sognato che bisognava sognare. Nella consapevolezza che “l’ora” dei sogni è bagnata di umiltà perché ci insegna che siamo in ritardo per dare lezioni a chi, invece, è in orario.

Il tempo del sinodo dovrebbe diventare lo spazio temporale nel quale la Chiesa di Cefalù permetta a ogni sua parrocchia di “fare casa” con l’uomo. Anche, direbbe Mazzolari, «con i semplici battezzati che non sanno neppure di avere una Chiesa». Si è verificato, nelle nuove generazioni, un esilio dalle mura della parrocchia. Lo abbiamo in parte giustificato legandolo al dolorosissimo e inarrestabile movimento emigratorio. Una vera verità storica. Va anche detto che non siamo stati capaci di introdurre e accogliere le loro voci tra le pagine eterne della misericordia e della carità evangelica. Anche quelle oneste. Intelligenti. Abbiamo preferito continuare a rileggere ad “alta voce” quelle dell’intransigenza dottrinale.

Che il tempo del sinodo sia anche “l’ora” dell’accoglienza cordiale dei nostri giovani con la loro mentalità viva, i loro occhi che guardano, le loro menti pensanti, le loro mai nascoste fragilità. Che il tempo del sinodo continui a vedere nelle nostre comunità il fiorire delle assemblee pastorali parrocchiali, già fortemente volute e incoraggiate dal nostro Vescovo Giuseppe. Si potrebbe pensare alla presenza di “inviati sinodali” e “moderatori sinodali” che le animino con l’intelligenza della fede e con passione e compassione pastorale e che raggiungano tutte le comunità della nostra Chiesa. Laici e presbiteri che presentino al popolo della parrocchia le tre vie del nostro sinodo: iniziazione cristiana, devozione popolare, unità pastorali sinodali. Vanno “calpestate” dai passi del popolo. Per diventare vie nuove. Percorribili da tutti. Laici e presbiteri che sappiano ascoltare e raccogliere senza essere muniti di possibili “mangiacarte” delle verità. Quelle scomode. Che le assemblee pastorali e il sinodo riescano a dare la battuta d’arresto a quel processo che ha portato alla clericalizzazione del laicato e alla laicizzazione dei presbiteri. Per essere uomini del proprio tempo. Come popolo di Dio. «E non duplicati di scarso rendimento» (don Mazzolari).