Da qualche anno un inseparabile e strano binomio fa da bussola al cammino della Chiesa. Asfalta la via del mio ministero: pandemia e sinodo. A esso si affianca, a più riprese, il verbo ripartire. Un trinomio “sinodale” ben collaudato, una sorta di “trinità” pastorale. Con la quale dobbiamo relazionarci per il futuro.

Le ripartenze e le vie da tracciare non sono mai facili. Non sono immediate. Necessitano, affinché siano nuove e percorribili, di lucide e tenaci osservazioni previe, fatte sul campo. Non a distanza. Ogni pianificazione, anche quella pastorale, deve essere saggiamente preceduta dal “vedere”. Quel “vedere” attento e responsabile, cadenzato dal nobile rigore della ricerca. Quel “vedere” acuto e lungimirante che scruta in profondità le realtà che ci circondano. Con i loro cambiamenti fugaci o prolungati, locali e globali. Quel “vedere” che sa scavare e che si impegna a cercare il vero con i propri occhi. A partire dai volti che ti raggiungono nel “sinodo quotidiano” degli incontri che dipingono la tela del tuo ministero. Con i pennelli del dolore e i colori della sofferenza. Con tutte le loro delicatissime sfumature. Incontri che permettono al corpo della tua anima di sperimentare cosa sia l’empatia. Quel vedere che cammina con l’ascoltare l’altro.

Ogni incontro con l’altro deve essere sinodale ed empatico. Ce lo ha saggiamente ricordato il nostro vescovo Giuseppe qualche giorno fa, inoltrandoci un pensiero sull’empatia di Edith Stein: «Solo chi si sperimenta come persona…, può capire altre persone. Se ci rinchiudiamo nella prigione della nostra particolarità, gli altri ci diventano un enigma, oppure, ancora peggio, li modelliamo a nostra immagine, e distorciamo così la verità».

Per essere autentici testimoni della storia e della verità, servono occhi e orecchie che le guardino e le ascoltino senza l’ausilio di lenti e apparecchi acustici, tesi a ripescaggi di voci e immagini passatiste. Cestiniamo negli appositi contenitori, come per la raccolta differenziata dei rifiuti, gli eterni gemiti e gli stucchevoli rimpianti su quello che non è più, che non può più tornare e che non è bene che torni. Respingiamo ogni percorso pastorale che rincorra la logica del rabberciare, dello scongelare; dello smaniare, come fanno i cani con le catene al collo, pseudo spazi di libertà che, invece, imbavagliano la profetica voce del Concilio.

Quanti si rifiutano di ascoltare la storia non ne saranno mai dei testimoni. Resteranno delle furbe volpi capaci di mordere la verità con le dentate della falsità. Volpi che, come Erode, si limitano a interrogare la storia solo per i propri mascherati tornaconti. Il sinodo è per ogni battezzato, il tempo del vedere, del cercare e del ri-cercare, dell’ascoltare. Del leggere la fede, i bisogni, i travagli, le ferite, le attese e i sogni degli uomini di questo tempo.

Per vivere il nostro battesimo con la veste sinodale, occorre procedere a una rapida tosatura del pelo della volpe, quello della furbizia e della menzogna, che copre possibilmente anche gli occhi della nostra coscienza. Dobbiamo guardare il volto del fratello con lo sguardo impastato di compassione. Per fissarlo e amarlo. Come ci insegna Gesù. Occorre fare lievitare la compassione per spezzare e donare il pane della misericordia. Per essere gli uomini e i cristiani della sinodalità e dell’empatia.

In potenza siamo tutti testimoni del presente. In atto lo sono solo coloro che, nel vedere e nell’ascoltare, non si lasciano incantare dal canto soave e sibillino della sirena dell’apparire. Gli effimeri selfie sul come siamo bravi per quello che facciamo, ce ne danno una osannante conferma. Colano dagli schermi dei nostri smartphone, come i mega manifesti pubblicitari tra le mura delle città. Hanno impaginato una sorta di “Ballarò” virtuale di prima classe. Con i suoi bravi venditori pastorali. Sono riusciti nel tempo del mordi e fuggi e del last minute, a sostituire senza alcun rimpianto, le targhe ricordo e le lapidi inchiodate sulle robuste mura degli spazi ecclesiastici e curiali.

Il sinodo sia il tempo che ci trasformi in cercatori dei semi di verità e di profezia. Sono sparsi per le vie delle nostre città, dei nostri borghi, delle nostre periferie. Raccoglierli e tenerli stretti tra le mani ci educherà a possedere l’arte del discernere. Quella propria dei facitori della verità.

La pandemia e il sinodo ci chiedono delle ripartenze. Come delle sfide sempre aperte. Ogni sfida pastorale ha la sua sudata vittoria se, le verità che ti consegna la storia, abbracceranno la grande Verità che possiede solo la Parola di Dio. Un innesto delicato che solo i veri vignaioli sanno realizzare. Quelli dalle mani innocenti e dai cuori puri.

Le verità il sinodo ce le presenterà tra le mura vive di ogni singola parrocchia. Perché la parrocchia si fa sinodo ogni giorno. Per fare il sinodo, come ci ricordano Papa Francesco e il Vescovo Giuseppe, si parte dal basso. Da quei cammini che consumano le suole delle scarpe. Per un vero percorso sinodale accanto ai tavoli, alle carte, alle bolle e decreti, alle pagine facebook e ai canali youtube, servono più suole di scarpe consumate. Il beato Puglisi affermava che: «Agli incensi usati in chiesa bisogna sostituire le suola delle scarpe». Forse il tempo del sinodo dovrebbe riportarci tra le strade. In mezzo al popolo. Dove si disperde ogni stimolo narcisistico e autoreferenziale. Dove il letame dei like e degli haters non trova terreno fertile.

Siamo ancora avvolti dal fascino della potenza della pastorale digitale. Dalla cultura della virtualità reale. La Rete ci ha permesso di non lasciare da soli i nostri fedeli, di accompagnarli, di custodirli. Non abbiamo consentito al Coronavirus di strapparci o rubarci l’arte del presiedere le celebrazioni eucaristiche. Il mondo dei social, in piena pandemia, ha toccato il picco per indice demografico e densità di popolazione di vescovi, preti, religiosi e religiose. Con larghi sorrisi sghembi e postazioni curate nei dettagli, gettonatissime le spiagge azzurre e le scrivanie degli ordinatissimi uffici parrocchiali, abbiamo creato assembramenti, quasi sempre salutari, di catechesi, lectio, messaggi, auguri. Una presenza dal tratto tutto materno, tesa a rassicurare.

Alle agghiaccianti immagini notturne dei carri militari con bare di cadaveri e delle stracolme terapie intensive si mescolavano quelle postate da una fetta di clero con corone di palloncini svolazzanti tra le nubi, processioni virtuali di Madonnine e santi protettori, solitarie benedizioni eucaristiche o con reliquie. Nell’emergenza il mondo virtuale ci ha permesso di garantire l’ordinarietà dei percorsi pastorali.

Nel solco di questa emergenza pastorale la pietà popolare ha tenuto banco. Anche virtualmente. Con un circuito di scudi protettivi contro la nuova peste. Si è aperto un “incantevole” ripescaggio dagli scaffali della memoria storica di rispettabili note della fede popolare. Quella dei semplici di un tempo. Da custodire. Forse non da riproporre. Possibili icone del “si invecchia e non si cresce mai”. Spie di cammini con le gambe arcuate.

Internet, i social tutti non vanno mai demonizzati. Assolutamente. Dobbiamo abitarli. Come Chiesa. Con il drammatico avvento del Coronavirus sono stati i preziosi salvavita della comunicazione, della didattica e di ogni relazione. Ma oggi bisogna ritornare a dare il primato al “sinodo quotidiano” degli incontri. Quelli reali. Carnali. Dove l’interazione e la connessione bella di tutti i sensi del nostro corpo ti fa sperimentare, in presenza e sulla pelle, i brividi umani e divini del nostro essere pastori e pecore.

Sul post, mai cancellato, delle mie letture preferite della “pagina facebook” della mia memoria rileggo qualche riga di Lettera sulla parrocchia di don Primo Mazzolari: «Lo stile dell’uomo: con molto fa poco. Lo stile di Dio: con niente fa tutto. Lo stile del Figlio di Dio, che è poi quello della Chiesa e che segue il mistero dell’incarnazione e della presenza eucaristica: la briciola diventa presenza». A seguire: «Senza corpo non c’è incarnazione, senza incarnazione non c’è salvezza». Al “sinodo quotidiano” dei miei incontri, mani, occhi, orecchie e cuore del mio ministero hanno abbracciato tante “briciole eucaristiche”. Frammenti, molliche luminose del Corpo di Cristo che raggiunge l’uomo.

“Briciole eucaristiche” sono state per me le tre bambine e il bambino di due giovani mamme morte qualche mese fa. La prima per un fulminante e devastante tumore, la seconda per un improvviso infarto. Durante il rito delle esequie le loro lacrime raccolte e la compostezza del loro dolore sono state per tutti i presenti l’omelia più bella sulla vita e sulla morte. Sull’amore terreno ed eterno che unisce i figli alla mamma. L’icona dei “piccoli”, all’anagrafe, e dei “grandi” campioni della speranza, di fronte alla tragedia più devastante che si potesse abbattere sulle loro vite. Osservavo dall’alto dell’ambone i loro volti, i loro occhi. Poche ore prima avevano visto il cadavere di colei che le aveva generate alla vita, allattati, cresciuti, amorevolmente sgridati, baciati. In quel momento osservavano smarriti una crudele bara. Eppure, quegli stessi occhi e quei fragili corpi, possedevano la luce, erano rivestiti della luce del Risorto.

Il mio non è stato un abbaglio, un salto mistico, una visione da paradiso. Restavo un uomo, un povero parroco. Con le suola delle scarpe appiccicate al pavimento della chiesa. Con il cuore spezzato dal buio di quell’ora nona. Con un nodo che si stringeva alla gola, togliendone il respiro. Il sole della vita, presente nella vita di due mamme e mogli, si era ecclissato. Le mie orecchie e quelle di tutta la comunità, erano ancora stordite dal boato che il terremoto della morte aveva provocato in quelle case. Il velo dell’amore che le copriva e custodiva si era squarciato. Eppure, i corpi di quei bimbi, provati da quell’ingiusto dolore, erano trasfigurati dalla luce del Risorto. La loro “luminosa presenza” apriva già le porte al “primo giorno” della settimana. Alla Pasqua. La luce del Risorto li raggiungeva anche con la forza dell’amore delle loro mamme e dei loro papà, a cui stringevano fortemente le mani. Senza parole contemplavo quell’assemblea, quella porzione del popolo santo di Dio, dove quei bambini erano la primizie del mistero della Resurrezione.

Ritornerò, spero presto, a farvi conoscere altre “briciole eucaristiche” dei sinodi quotidiani del mio ministero. Sono pezzi di Vangelo che si incarnano nelle vite. Nei corpi. Pagine del sinodo della strada.