Ho sempre creduto nella scomoda e inossidabile forza profetica della Chiesa. Così come credo nell’amore di mia mamma. Ciecamente. Fino al suo ultimo respiro. Quella forza che esplode. Come la lava incandescente dal cratere di un vulcano. La chiesa somiglia anche a un vulcano. Alcuni suoi figli sono dei vulcani. In special modo quelli che si alimentano della Parola di Dio. Quanti quotidianamente la pregano, la meditano, la studiano, se ne cibano, sperimentando ogni volta la sofferenza di quel fastidioso reflusso che la Parola provoca quando passa tra le pareti dell’esofago del proprio io. Per poi annunciarla. Spezzarla. Come il Pane della vita.

Questi figli della Chiesa fin dal primo incontro ti segnano la vita. Per tutta la vita. Ne porti addosso le impronte. Sono quelle di un abbraccio “infuocato” e luminoso. Dove c’è il volto della madre Chiesa. A iniziare dal loro modo di ascoltarti. Fatto silenzio. Con la cornice dorata di uno sguardo che ha tutte le rughe belle della sapienza. E di una voce che conosce le note e le pause del pentagramma della compassione e della misericordia. Questi sono i miei ricordi indelebili sul primo incontro, tra le pareti di un confessionale, con padre Giuseppe Bellia. A Palermo. In Cattedrale. Era il 15 ottobre del 1993. Si celebrava l’Eucarestia a un mese dalla morte di padre Puglisi. Quel giorno avevo la morte dentro l’anima. Cercavo il mite sorriso del mio padre spirituale ormai in parte sfigurato dalla sua nuova identità, quella del prete antimafia.

Compresi subito che la mente e il cuore di don Bellia erano dei mega ed invisibili pozzi sotterranei. Dove vi custodiva la Parola di Dio, “il magma” che alimentava ogni suo gesto: dai sorrisi ai sospiri; dalla pacca sulle spalle allo sgranare silenzioso tra le dita della coroncina del rosario. Da quel giorno continuai a cercarlo. L’ho sempre cercato. Per ben 27 anni. Per condividere gioie, emozioni, travagli, delusioni, paure, progetti. L’ho paragonato ad un grande vulcano. Sempre in eruzione. Tutto il suo ministero, la sua umanità portava il profumo pungente e graffiante di una sana e lacerante inquietudine. Era il suo angelo custode. Gli stava accanto giorno e notte. Camminava con lui. Nella laboriosa ricerca dell’identità che voleva imprimere al suo ministero e alla sua azione pastorale. Gli spaccava il cuore e la coscienza. Il suo vivere il senso del tempo secondo Dio.

Don Giuseppe era il prete evangelicamente irrequieto. Calpestava le orme del Figlio dell’Uomo. Come il Signore, il suo capo non riusciva a trovare una tana o un nido dove posarsi. Il suo corpo si cibava di poche ore di sonno. Diversi incontri sulla Parola di Dio in parrocchia o con tanti nostri amici si prolungavano fino alle due, alle tre della notte. Era instancabile. Noi pendevamo dalle sue labbra. Consapevoli di avere di fronte a noi un uomo dotato di una intelligenza che oltrepassava anche i canoni dell’eccellenza. Un gigante del sapere, ma anche l’icona di chi nell’aumentare la conoscenza vede aumentare il dolore. Demoliva senza raggiri diplomatici percorsi spirituali e pastorali, personali o comunitari che si allontanavano o erano in conflitto con la Parola di Dio. In questi casi non l’ho visto mai tacere, neanche di fronte ai teologi di spicco, ai laici “in carriera” e agli alti prelati. Con o senza lo zucchetto. Erano i contesti dove don Giuseppe riusciva a zittire, quasi sempre con paziente eleganza, l’interlocutore. Alla fine era solito citare a memoria diversi passi della Scrittura precisando libro, capitoli e versetti, preceduti dal suo puntuale e garbato: «Vuoi la riprova».

Lo zelo per la casa del Signore lo consumava. Un travaglio inarrestabile. Un martirio bianco. Spesso anche silenzioso e doloroso. Condiviso con pochissimi compagni di viaggio. Accompagnato da martellanti domande tutte tese a pensare un cammino per la chiesa che fosse lontano dalla logica del potere e appiccicato alla storia. Il suo è stato un percorso di vita e di fede baciato dalla sferza del tormento. Quel tormento luminoso che attraversa la vita del profeta, di colui che si lascia governare e consolare dall’ascolto intelligente, libero e creativo della voce di Dio, della Sua Parola. Un tormento che ha generato nell’uomo e nel presbitero Giuseppe progetti alti e di qualità tra le mura della sua parrocchia, della facoltà teologica di Sicilia, delle varie realtà culturali e sociali che lo interpellavano, nei cuori dei suoi figli.

Frammenti di consolazione gli giungevano dalla preghiera con i salmi. Quando eravamo in auto amava recitarli. Con la postura del bambino. Assistevo così ad una stridente e edificante dicotomia. Quella tra “il grande” Bellia che stava in cattedra e il “piccolo Giuseppe” che teneva tra le mani della sua oceanica memoria il salterio monastico. Tra il preparatissimo docente universitario, sempre sicuro di sé e pronto a rispondere a qualsiasi domanda e il discepolo della Parola fatta preghiera. Teneva la schiacciante postura del bambino anche tutte le volte che stava al telefono con la sua amata mamma. La chiamava ogni sera. A lei chiedeva la benedizione prima di iniziare la sua lectio per il popolo di Dio. Sento ancora tra le mie orecchie il suo dirle: «Mammuzza mia, sto andando a predicare a Collesano, dammi la tua benedizione e prega per me». Si affidava alle preghiere della madre. Ne chiedeva la benedizione. Anche in questo era stato suo insostituibile maestro don Giuseppe Dossetti. Aveva imparato da lui ad ubbidire alla mamma.

Don Bellia era soggiogato dalla Grazia. In lui l’amara via del tormento era costellata dalla forza e dalla gioia degli entusiasmi contagiosi, dai fermenti dei sogni, da una volontà di futuro incontenibile. Spesso i suoi interventi davano fastidio perché quasi ti obbligavano alla messa in discussione di te stesso, ti stimolavano ad aperture scomode e non pensate prima. Però la sua onestà intellettuale, la sua alta tensione morale, spirituale e pastorale, condite dalle gocce di rugiada dell’ironia e dell’autoironia, facevano di lui il portavoce della Sapienza del Signore. Una sapienza che non riusciva a trattenere per se stesso. Aveva deciso di donarla a tutti con la predicazione, la lectio, le conferenze, l’insegnamento, la direzione spirituale.

I primi di Luglio del 2017 registrano un inaspettato cambio di rotta. Il flusso piroclastico di una infuocata leucemia lo condurrà ad essere maestro e testimone della Sapienza di Dio, stavolta, lasciandosi bruciare lentamente dalle fiamme della malattia e della sofferenza. La legna che le alimentava è stata fino all’ultimo respiro quella della Grazia.

La postura del bambino ha accompagnato il tempo della sua passione. Il 30 Agosto del 2017 dopo i primi cicli di chemio, seguiti da febbri devastanti, stanchezza, nausea, orticaria e afte insopportabili, mi scriveva in un sms: «Mi pare di stare bene. Ma sono nelle mani del Signore anche se non so che cosa mi aspetta. Confido sempre nel Signore e nel volere fare la sua volontà. Chiedilo anche tu al Signore per me».

Riporto ancora qualche altro messaggio ricevuto che torni a evidenziare la crescita “del bambino” Giuseppe in cammino verso la Gerusalemme celeste.

«Questo è per me un tempo di silenzio e di reclusione che mi invitano a ricercare il centro e a fare riposare la mente dai molti pensieri nel cuore stesso di Cristo».

«Dopo quaranta giorni di ospedale sto cercando di ascoltare il Silenzio di Dio».

«Continuiamo a ringraziare il Signore anche quando non ci parla, come fa il Dio bambino di Betlehem che aspetta solo di essere accolto».

«Davanti al dono del battesimo se crediamo non abbiamo scampo. Siamo chiamati ad essere conformati a Cristo. Fino al Getsemani, al Golgota, fino alla tomba».

«Io vivo alla giornata e spero solo in Lui e gli ripeto: come vuole il Padre e decidi tu, Gesù. Grazie pace a te».

Don Giuseppe si è spento come un profeta. Quel profeta sentinella che qualche volta mi chiamava al telefono anche a tarda notte o alle prime luci dell’alba. Allora le sue prime parole erano: «Franco, ma che fai? Dormi?». La sua voce con queste sue parole, raggiungono ancora le orecchie della mia coscienza. Senza essere precedute dagli squilli di un cellulare. Questo semplice scritto è per me il modo più semplice per non lasciare sprofondare, nell’oblio dei soli ricordi, la voce di un padre che non mi ha mai permesso di far dormire il mio battesimo e il mio ministero. Una sinodia che non conosce i limiti del tempo.