Caro Tommaso,

ogni anno, la seconda Domenica di Pasqua scendi dai piani alti della “tua” divina Gerusalemme celeste. Riesci a farlo con la puntualità dello storico orologio svizzero. Per stare in mezzo a noi. Per ritornare a essere quel discepolo che ha indossato la sudata tunica della ricerca della Verità. Calzato i sandali dalla doppia suola. Quella che ti ha permesso di prendere a calci la paura. Di uscire da quel luogo chiuso dove gli altri tuoi compagni di viaggio continuavano a sostare. Per paura dei Giudei. O meglio, per l’umana paura di perderci la pelle. Di fatto quando il Risorto li ha visitati per la prima volta, tu non eri con loro. Sono certo che non eri uscito di casa per concederti una rilassante passeggiata primaverile. Di quelle salutari che danno il buongiorno, con i colori fluorescenti delle loro tute, all’alba della domenica di tanti nostri cari amici. Tu, invece, eri scappato da quel luogo chiuso perché non tolleravi più il nero buio della tristezza da sepolcro. Quell’odore di umido da muffa che bagna le narici fino a raggiungere il palato. Le papille gustative della tua fede gridavano il bisogno di “mangiare” i sapori del “pane vivo”, del pane della Speranza. Detestavano il sapore acido generato dall’inarrestabile reflusso dei chiusi canali della rassegnazione. Avevi intuito il valore dell’uscire. Del cercare. Del cercare “la via nuova” tracciata dal Risorto anche tra le mura della storia. Del presente. È vero, dopo quella “fuga evangelica” sei tornato a casa. Dai tuoi fratelli. Lì anche tu hai visto il Risorto. Il Vivente. Ma c’è un dettaglio prezioso che non possiamo tralasciare. Tu, caro Tommaso, avevi chiesto al Risorto di mettere il tuo dito nel segno dei Suoi chiodi e addirittura anche la tua mano nel Suo fianco. Chiedevi un’immersione totale nel mare azzurro della Divina Misericordia. Ti facevi per noi icona di quella “curiositas” laboriosa della fede che non vuole restare nell’attico verdeggiante degli ideali. Tra gli scaffali dei ripostigli dove esponiamo le conserve dei nostri pii desideri. Chiedevi di sporcarti le mani con l’esperienza concreta del toccare. Quel metterci il cuore, la faccia, la schiena, il respiro. Quel bisogno di incarnare la fede. Di renderla onesta. Senza farla diventare spettacolo tra i palcoscenici delle solenni celebrazioni “virtuali”. Quei “pontificali” da scrivania che prendono le distanze dal prossimo e dal quotidiano.

Il Risorto, al vederti, illumina la tua richiesta. Da vero maestro ti invita a toccare con le tue mani le Sue ferite. Un’esortazione che porta con sé anche la folgorante ombra del richiamo. Però, a seguire, nella dinamica della narrazione dei fatti assistiamo ad una visibile paralisi completa di ogni tuo gesto. Un arresto lucido e non programmato. Fuori dal registro dei tuoi desideri. Si dà voce alla voce del tuo cuore Al cuore della tua fede: «Mio Signore e mio Dio». Forse perché tu, caro Tommaso, avevi già toccato i segni della passione e del dolore nelle ore della tua “fuga evangelica” in ogni fratello che avevi incontrato. Nei corpi, nelle menti dei nemici del tuo Maestro. Segnate dalle ferite dell’odio, del corale: «Crocifiggilo». Nei volti sfiduciati, costernati dalle ferite del dubbio, dai solchi profondi della delusione dei tanti che avevano seguito un Maestro che aveva visto posare sul Suo capo solo la corona del fallimento.

Oggi con la determinazione squisitamente evangelica di quell’ottavo giorno, sei venuto a spalancare porte e finestre delle nostre chiese. Per farle accarezzare dalla luce della fede Pasquale. Proprio tu, il discepolo “addetto” alle apparizioni, ci fai dono di una tua apparizione-lezione per darci le giuste direttive per incontrare il Cristo Risorto. Sottovoce ci dici che in quelle ore di “fuga evangelica” avevi incontrato tanti fratelli che, come Il Risorto, portavano sulla loro carne i segni dei chiodi del dolore, della sofferenza, della disperazione. Dai loro corpi questi chiodi erano stati tolti o bruciati dal fuoco della loro fede. Ma nelle cicatrici rimaste vive e aperte vi era impresso il segno del peso del coraggio della loro fede.

Questi chiodi li ho toccati con le mani dei miei occhi sui corpi crocifissi di una giovane mamma, Kateryna. Dei suoi bambini Lubomir, di 13 anni, e Darij, di due. Li ho incontrati qualche ora fa. Ho pranzato con loro. Li ha accolti e ospitati un mio confratello. Sono scappati dall’Ucraina. Dalla guerra. Per raggiungere la vicina Polonia sono stati in viaggio tra treni e macchine quattro lunghi giorni. Quel modesto refettorio oggi è diventata la stanza dove Tommaso, raccontandosi nel Vangelo della seconda domenica di Pasqua, mi ha condotto per incontrare il “Risorto” nelle loro fragili vite spezzate che portano le cicatrici col peso del coraggio della fede. Della forza della vita.

Caro Tommaso, prima di concludere devo fare una doverosa puntualizzazione. Questa lettera non è indirizzata solo a te. Ha come destinatari i miei amici, tanti compagni di viaggio, forse anche qualche conoscente, possibilmente anche qualcuno che non ho mai visto o incontrato. Sai, quest’anno non avevo ancora scritto nessun messaggio di auguri per la Santa Pasqua. Aspettavo di incontrare proprio Te, caro Tommaso, perché farli insieme a te con Kateryna, Lubomir e Darij ci insegna che ogni giorno può essere Pasqua. Auguri!

Tuo e vostro fratello Franco.