Oggi ci ritroviamo a celebrare la giornata mondiale dei nonni e degli anziani. Anche io voglio celebrarla. In punta di piedi. Con lo stesso passo col quale sono entrato nelle loro case. Dove ho trovato sempre porte spalancate. Ma c’è molto di più. Visitando “le stanze” della loro vita, mi hanno introdotto a conoscerne i segreti. Per amarla e custodirla. Più volte sono stato “afferrato dalle mani laboriose” del loro cuore e della loro anima. Hanno regalato schiaffi di sapienza e carezze di umiltà alla mia coscienza. Di uomo e di presbitero.

Hanno tolto dal suolo del campo del mio ministero le pietre “petalose” dell’accomodamento, del rattoppo, del quietismo. Di ogni volpesca furbizia pastorale che fa da hall all’hotel del carrierismo. I nostri vecchietti bucano le ruote delle nostre corse pastorali. Senza l’uso dei chiodi arrugginiti della vanità e dell’onniscienza. Di proprietà dei falsi maestri. Ma con i sottilissimi aghi della semplicità, dell’onestà, del sacrificio, dell’essenzialità e della fede. Di proprietà esclusiva dei “dottori” dall’intelletto coperto dalle rughe della saggezza. Quelle che portano i segni del santo timore di Dio.

I loro letti, dove si consumano spesso anni e anni della loro esistenza, sono le culle più belle per ascoltare il tenero canto della fede. Inchiodati tra le sbarre della sofferenza e del dolore, hanno sempre bagnato le mie mani con le lacrime cristalline della speranza. I loro rantoli mi hanno consegnato le primizie del respiro dell’eternità. Ma non basta. I nostri vecchietti nella società post familiare e dell’evaporazione delle relazioni coniugali, continuano a testimoniarci che non è impossibile amarsi e onorarsi fino all’ultimo respiro.

Me lo hanno insegnato, senza proferire parola alcuna e senza il tripudio osannante di foto sui social, Natale e Provvidenza. Di anni 87 e 86. Sono stato a casa loro dodici giorni fa. Per amministrare il sacramento dell’unzione degli infermi. Entrambi allettati da mesi. Dimorano nella stessa stanza che sembra una piccola e ordinata farmacia. Non hanno più il letto matrimoniale. Però dai loro lettini possono ancora guardarsi. O meglio, continuare ad amarsi. Sono moglie e marito dal 5 dicembre del 1960. Da ben 62 anni. Le nozze sono state benedette in sacrestia alle 5 del mattino. Di notte. Al buio. Con i soli testimoni. Era la triste regola punitiva per coloro che avevano scelto la via della “fuitina”. Non ne ho trovato neanche la trascrizione nel registro dei battesimi di ambedue.

Il 12 luglio del 2022 a Natale e Provvidenza io ho impartito l’unzione degli infermi, ma loro hanno celebrato alla mia presenza la bellezza degli ultimi passi della corsa del loro amore. Come se fossero i primi. Mi hanno reso testimone oculare della celebrazione delle loro nozze non più d’oro, di diamante, di ferro. Ma eterne. L’incrocio silenzioso ed empatico dei loro sguardi. I movimenti simultanei delle labbra nella recita del Padre nostro. Il gesto composto e concomitante del segno della croce, sono stati l’eco più solenne e più alto di quel versetto della Genesi che ho ascoltato in tanti matrimoni benedetti: «E i due saranno una carne sola». Natale e Provvidenza lo saranno sicuramente fino all’ultimo respiro. Con i loro corpi piagati e pieni di lividi, falciati da continui ictus che ne hanno bloccato i movimenti, con i fili dei cateteri e i tubicini della bombola d’ossigeno. Lo saranno, custoditi dall’amore della figlia, del genero, del nipote. Ne curano i corpi. Meglio, si prendono cura del corpo del loro amore. Fino a fare scomparire ogni ora del loro tempo.

La storia di Natale e Provvidenza non è la sola. Domenica ho visitato Maria. A casa sua. Dopo devastanti chemioterapie l’ho trovata che dormiva. Possibilmente la notte per gli atroci dolori che la inseguono, non aveva chiuso occhio. Non l’abbiamo svegliata. Col marito e la figlia abbiamo pregato ai piedi del suo letto. A bassa voce. Il marito ha pregato con le sue lacrime. Scendevano lentamente dagli occhi, ma sgorgavano dal cuore. Erano la voce narrante di una promessa fatta ai bordi dell’altare quasi sessant’anni fa: «Prometto di amarti e onorarti nel dolore…, nella malattia…, per tutti i giorni della mia vita».

Ieri, alla viglia della festa dei nonni e anziani, ho visitato Pina. Una nonna che ha svolto il ruolo di madre per tantissimi anni. Un nipote è rimasto senza mamma da piccolissimo. Anche lei la notte non sa più cosa sia il riposo. Non riesce più a muovere un passo. Mi ha riconosciuto. Era lucidissima. Ha fatto la Comunione. Con profondo raccoglimento. Ha voluto stringermi le mani. Con le deboli forze rimaste. Al salutarmi mi ha ripetuto per tre volte: «Infinitamente grazie». Lo sento ancora. Accarezza le mie orecchie. Come un saluto benedicente. Sul capezzale del suo letto vi era un piccolo Crocifisso. Senza croce. L’ha presa in prestito Pina. Per una collocazione provvisoria. Come succede a tanti nonni e anziani che forse non sapranno nulla di questa festa. Perché loro amano le feste fatte in casa. Nell’intimità.

In queste brevi cronache, ma ancora prima, in ogni visita “fatta in casa” ho avuto come preziosa compagna di viaggio un’omelia. Quella tenuta dal Cardinale Mario Grech a Gangi il 3 luglio nel contesto dell’annuale Statio Ecclesiae Cefhalocensis, fortemente voluta dal mio Vescovo Giuseppe. Le esortazioni del Segretario del Sinodo dei Vescovi sono state scintille di grazia. Il Cardinale ci ha indicato nella strada e nelle case i luoghi da abitare per vestire l’abito di una chiesa veramente sinodale. Ci ha ricordato che: «Anche Gesù ha mandato i discepoli per la strada e ha chiesto loro di entrare nelle case». Precisando che: «Le case sono ricche di esperienze umane vere». Ci ha consegnato il volto e i tratti somatici di una Chiesa sinodale: «Deve avere un cuore materno per ascoltare le narrative della gente. Deve prendere nota della storia della salvezza che si evolve nella quotidianità. Deve incarnare lo stile di Dio che cammina nella storia e condivide le vicende dell’umanità. Deve sapere fare alleanza col tempo. E sapere attendere il dipanarsi di una storia sacra che non si è mai interrotta, ma che avanza e guida la Chiesa». Ci ha aiutato a comprendere che il processo sinodale: «Non deve spingerci a immaginare una altra Chiesa. Ma ad una Chiesa altra». Confesso che negli anziani e nei nonni visitati questa Chiesa io l’ho incontrata. L’ho abbracciata.Ecco perché faccio festa con loro. Non solo oggi. Ma ogni giorno.