Quella vissuta nei confronti della vita dei frati minori rinnovati si configurò nel tempo come una bella “cotta”. Me ne innamorai. Perdutamente e profondamente. Ma c’è di più.

Quest’amore aveva trovato anche la sua dimora nell’eremo del beato Bernardo di Corleone dove vivevano i religiosi. Per circa tre mesi fu la mia casa. Con una cella, un letto senza materasso e senza cuscino; un piccolo tavolo con i suoi piedi scricchiolanti, due sedie. Come capezzale, una nuda croce fatta con due pezzi di canne.

Lì trovai una nuova famiglia: padri, madri, fratelli e sorelle. Mangiai il pane della fraternità impastato con il lievito della carità. Quella non imbavagliata dai gradini gerarchici del carrierismo, dai segni del potere, dalle ombre grigie di quelle pericolosissime forme di autorità addolcite con l’irenico zucchero della diplomazia.

Lì tutto, sottovoce, mi parlava di servizio. Senza link da cliccare, numero di possibili visualizzazioni da attendere o like da aggiungere. I miei occhi osservano ogni cosa. O meglio, scrutavano tutto. Da innamorato.

Restavano fulminati nel vedere il servo generale stare ai fornelli, pelare le patate, indossare il grembiule e lavare i piatti, come un novizio o un postulante appena arrivato. Anche le mie orecchie si erano aperte all’ascolto. Della Parola, del Silenzio, dei fratelli tutti, dei poveri. Ricordo ancora quei minuti in cappella che precedevano compieta dedicati all’ascolto tra fratelli. Ad alta voce, chi ne avvertiva il bisogno, chiedeva perdono a Dio e ai fratelli per gli errori e le deficienze della giornata che volgeva al suo tramonto. Note di vita e di spiritualità che davano i primi accordi a un tenero concerto di umiltà con il sottofondo delicatissimo della correzione fraterna. Una palestra dotata degli attrezzi che consegnavano il feedback della misericordia di Dio e della comunità. Una realtà distantissima dai canoni che governano quelle “morbide” e “incipriate” accuse da corridoio o da sagrestia con i sapori e gli odori dell’infantilismo umano ecclesiastico. Erano l’eco del desiderio limpido di voler “essere fedeli nel poco per riuscire a esserlo nel molto”.

Fra’ Francesco chiedeva di essere perdonato perché, per una disattenzione, aveva rotto l’ago della macchina da cucire; fra’ Martino perché aveva fatto una telefonata un po’ lunga con lo sciupìo di qualche gettone in più rispetto al previsto. L’ascolto dei poveri non passò solo per le orecchie ma per la testa.

La domenica mattina, dopo la santa messa, si andava “alle Baracche”, una zona poverissima di Corleone. Andavamo nelle case per stare accanto ai bambini e aiutarli a fare i compiti scolastici. Erano bambini svegli, intelligentissimi. Ci aspettavano con grande entusiasmo. Non mancava il regalo delle caramelle, qualche penna o gomma profumata. Avevano tanto bisogno di affetto, come nelle freddissime giornate d’inverno si ha bisogno di una calda coperta. Avvenne che nella tarda serata di una di queste domeniche iniziai ad avvertire sulla mia testa un prurito incontenibile. Eravamo a cena e non potevo fare a meno, con grande disagio e rossore in viso, di grattarmi la testa.

Fra’ Barnaba mi guardava con uno strano sorriso sulle labbra. Dopo un po’ mi chiese se avessi mai preso i pidocchi. Capii subito cosa stava succedendo. I miei capelli ne erano già pieni. I bambini della baracca mi avevano contagiato. A dire il vero, ne ero felice. Era per me un condividere un tassello del mosaico di quella povertà. Le mie mani non si erano “ sporcate” ma si era “ sporcata” la mia testa. Aveva bisogno di un assalto di pidocchi per incontrare il volto della povertà dei piccoli. E per iniziare a prendere una virile consapevolezza del valore di avere vissuto in una famiglia che non mi aveva fatto mai mancare nulla.

A proposito di mamma e papà, porto nel cuore questo incancellabile ricordo. Chiesi loro di evitare di raggiungermi all’eremo. Tuttavia, assicurai che avrei dato notizie. Dovevo farlo io perché in convento non c’era telefono. Non rispettai la promessa di chiamarli ogni settimana.

Un pomeriggio vidi arrivare in convento un carissimo amico di papà, un suo collega Fiat di Corleone. Mi consegnò una pesantissima borsa di stoffa. Era piena di monete. Loro sapevano che con me non avevo un portafoglio con dei soldi. Vi era anche un biglietto con la scritta: “Solo per ricordarti di telefonarci. Abbiamo bisogno di sentire la tua voce. Tua mamma e tuo papà”. Per me non fu un fugace rimprovero ma una lezione di vita a due voci.

Imparai che certi slanci ascetici o voli di angelico misticismo sul distacco dagli affetti più cari possono fare inaridire i cuori, attivare lenti processi di loquaci sicurezze che accarezzano il tuo orgoglio. Si può scivolare in percorsi formativi che possono spegnere o ridurre la potenza dei tratti più belli della nostra umanità con i fili della figliolanza, dell’amicizia, dell’empatia, della compassione, della solidarietà, della prossimità. Di quei fili che sono i conduttori della “luce” del Vangelo che sa solo e sempre fare brillare la bellezza della nostra umanità e mai bruciarla. In quella frase vi lessi tutto il loro naturale desiderio-bisogno di accompagnarmi nel cammino di discernimento che avevo iniziato.

Mamma e papà devono starci. Con questi loro titoli. Ne sono membri di diritto. A condizione che tolgano dal cassetto sempre aperto della loro genitorialità la colla di una possibile affettività morbosa. Come anche quel possibile look spirituale con il suo luccichio di scintille per una sorta di sottile privilegio che li ha raggiunti perché un loro figlio è stato chiamato alla vita presbiterale o religiosa. Una sorta di “effetto aureola” a catena: siamo già tutti santi. O quasi. Dopo questo volo pindarico ritorno all’eremo. Anzi su un tratto dell’autostrada Palermo-Catania.

I frati non possiedono macchine. Ci si muoveva in autostop. Una sera di novembre tornavamo da Canicattì. Eravamo con fra’ Barnaba fermi allo svincolo di Villabate. Preceduto da una raffica di lampi e di tuoni si scatena un violentissimo temporale. Non avevamo ombrello nè un tetto dove ripararci dalla pioggia insistente e battente. Cercammo di trovare riparo sotto degli alberi di mimosa.

Fra’ Barnaba uscì il suo mantello dallo zaino. Coprì le nostre teste. Ma col tempo divenne pesantissimo perché inzuppato d’acqua che iniziava a gocciolare. I nostri piedi coperti dai soli sandali erano bagnatissimi. Nel buio passavano tante macchine. Per la pioggia nessuno riusciva a vederci o provava a fermarsi. Intanto, io a distanza, riconoscevo qualche macchina e chi la guidava. Passarono alcuni miei paesani. Anche un mio zio. Non si accorsero di noi, di me. Non mi hanno riconosciuto.

Per me erano i secondi, i minuti della perfetta letizia. Li racconto e li rivivo non come ricordi accartocciati tra le pagine del calendario del passato con i colori sbiaditi della nostalgia.

Non potranno mai esserlo perché frammenti della beatitudine che appartiene al tempo di Dio: l’eternità.