Sulle orme del primo viaggio apostolico di Papa Francesco
Giovedì 25 agosto 2022: sono le ore 23. In una notte un pò luminosa a Lampedusa, con i membri di “Mediterranean Hope” arrivo al molo Faravolo, perché è giunta poco prima la notizia che arriveranno circa 80 migranti. Giunti al molo la barca che trasporta i migranti si accosta. Poi iniziano a scendere e a passare per i controlli di registrazione e di valutazione dello stato di salute. Subito dopo li accostiamo per dar da bere e da mangiare. Consegniamo a ciascuno delle coperte termiche ma anche dei giochi per i bambini. Scambiamo anche qualche parola sulla loro esperienza di viaggio e altro… Malgrado qualche difficoltà per comunicare, questa sera almeno c’è chi parla francese o inglese, allora ho potuto dialogare con parecchi senza grande difficoltà. Poi arriva l’autobus che li porta all’hotspot. Ritorniamo a casa aspettando un altro segnale d’arrivo. Ritorno a casa verso le 2 di notte.
Questo semplice racconto può far comprendere il mio impegno quotidiano come volontario a Lampedusa dal 3 al 27 agosto scorso. Scene come questa si verificano più volte al giorno.
Sono stato a Lampedusa per l’intero mese di agosto e rendo grazie a Dio per questa esperienza di servizio a favore dei migranti. Devo confessare però che ho sentito parlare di Lampedusa per la prima volta in occasione del primo viaggio apostolico di Papa Francesco nel 2013. Ero ancora in Camerun e non immaginavo di dovermi trasferire un giorno in Italia, né tantomeno nella nostra bellissima Sicilia o in questa terra delle isole Pelagie. Il Papa che proviene dalla “fine del mondo” aveva scelto come primo viaggio apostolico un’altra “periferia”: Lampedusa, il punto più a sud del continente chiamato anche la porta d’Europa, un territorio più vicino alla Tunisia che alla Sicilia, dove sbarcano migliaia di migranti imbarcati dalle coste tunisine o libiche. Era un giorno estivo, l’8 luglio 2013, giorno indimenticabile per i lampedusani. Dunque, anche se motivato dalla mia ricerca dottorale sulla problematica dell’accesso dei “rifugiati” alla cura sanitaria in Sicilia, il mio viaggio e la mia esperienza di servizio di accoglienza dei migranti a Lampedusa ha avuto anche un altro motivo più profondo: mettermi sulle orme di Papa Francesco visitando una delle tante “periferie” per vedere ad occhio nudo la realtà degli sbarchi e per “abbracciare” i migranti che sbarcano ogni giorno dopo aver tanto temuto e sofferto; migranti che approdando su quest’isola sperano di vedere la luce nuova che illuminerà la loro vita e il loro futuro. Quest’esperienza si inserisce nel mio percorso di formazione e di cammino verso il Sacerdozio: sono stato mandato a Lampedusa, infatti, dal mio vescovo mons. Giuseppe Marciante. A lui dico un grazie particolare per avermi dato questa possibilità di crescita. Il Sacerdozio, infatti, non consiste nell’essere servito ma nel servire (cf. Mc 10,45). Quest’esperienza è stata molto opportuna nel mio percorso di formazione, perché mi ha permesso di toccare con mano la realtà dei migranti. Per un intero mese con altri volontari mi sono messo, con gioia e disponibilità, al servizio della prima accoglienza dei ragazzi minorenni, delle donne e degli uomini che, sopravvissuti ai pericoli del Mar Mediterraneo, sono giunti sull’isola. Seguendo Cristo, sono stato in mezzo ai migranti che sbarcano come colui che serve (Lc 22,27).
Sono stato accolto calorosamente dal parroco della Parrocchia S. Gerlando don Carmelo Rizzo e sono stato impegnato notte e giorno per la prima accoglienza ai migranti insieme ai volontari di Mediterranean Hope (il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia) e a coloro che fanno parte del Forum di Lampedusa solidale (formato anche dai parrocchiani della Parrocchia San Gerlando di Lampedusa e dalla comunità delle suore).
Quotidianamente abbiamo cercato di dare la prima accoglienza al molo, offrendo ai migranti alcuni beni di prima necessità: acqua, cibo, coperte termiche, ma soprattutto un sorriso che a causa delle mascherine poteva scorgersi solo dagli occhi. Di solito, dopo le consuete formalità di registrazione e di valutazione dello stato di salute sostavano un attimo sul molo prima di salire sull’autobus che li avrebbe portati all’hotspot dove sarebbero rimasti in attesa del trasferimento in altre regioni d’Italia. Abbiamo approfittato di quel momento, unica occasione per mostrare loro un pò d’affetto, per parlare con qualcuno o ascoltare un breve racconto della loro storia fatta di tanta vulnerabilità e pericoli. Aver parlato con noi è stato molto importante, perché ha generato in ciascuno la speranza del futuro, malgrado la loro vulnerabilità.
Questo mese di volontariato a Lampedusa mi ha permesso di fare un’esperienza che chiamerei del “Fuori tempo, ma in tempo”. La mia vita con gli orari ben definiti, compreso il riposo dopo il pranzo, è stata completamente stravolta, perché a qualsiasi orario arrivava un messaggio telefonico che mi informava di uno sbarco di migranti. In ciascuno di loro ho incontrato il Cristo sofferente. Ho dovuto, pertanto, mettermi al di fuori del mio tempo abituale per essere in tempo giorno e notte ad uscire incontro a coloro che giungevano al molo Favaloro. Trovarmi lì, quando arrivavano numerosi mi ha fatto emozionare tante volte. Ho fatto tante domande in relazione ai barconi sui quali erano saliti, ai soldi spesi per il tratto Tunisia/Libia-Lampedusa. Ho incontrato donne incinte, neonati, minorenni non accompagnati che sbarcavano stanchi, affamati, assetati. Sono rimasto senza parole dinanzi a questo dramma. Le barche che trasportano i migranti sono per la stragrande maggioranza piccole e obsolete, non sono adatte per un viaggio così lungo, non hanno alcuna copertura e tante volte non giungono al porto sospirato, sono vere vie di morte. Solcando il Mar Mediterraneo su quelle barche i migranti iniziano una vera avventura senza alcuna certezza, ma con un’unica speranza: giungere in Europa. Su questi barconi i migranti sono ammassati come bestie. Davanti a questa realtà, partecipando quotidianamente alla Celebrazione Eucaristica, ho trovato la forza e l’energia necessaria per scendere al molo e accogliere coloro che Dio ama più di tutti, perché il Figlio di Dio è venuto per i malati e non per i sani. Durante le messe quotidiane, ma anche nei miei momenti di preghiera personale, sulle orme del primo viaggio apostolico di Papa Francesco a Lampedusa, ho offerto al Signore le anime di tutti i morti in mare. Mi sono raccolto in preghiera al cimitero di Lampedusa dinanzi a un luogo simbolico, dove si fa memoria di “musulmani, cattolici, vecchi, giovani, neri, bianchi, migranti morti in mare in cerca di liberta”.
L’esperienza di Lampedusa mi ha insegnato a sacrificarmi di più per gli altri. Il tempo non era mio, ma dei migranti. Tornavo a casa tardi (anche alle 2 di notte), non perché stavo prendendo una pizza con amici, ma perché ero al servizio dei più deboli. Quando li accostavo, mi emozionavo sempre, perché facevo tutto solo per la gloria di Dio. Credo, infatti, fermamente nelle parole del Signore: “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). L’esperienza di Lampedusa mi ha permesso di avvicinarmi con gesti di amore e affetto ai fratelli più deboli, per questo ritorno a Cefalù molto più ricco umanamente e spiritualmente. A Dio solo la gloria.