Non mi hai mai entusiasmato comprendere il significato di un termine misurandosi con la sola lettura delle diverse definizioni, estrapolate dagli intramontabili vocabolari, quelli cartacei di un tempo e quelli online di oggi. La comprensione piena passa e si compie attraverso il canale dell’esperienza. Si completa quando dall’elaborazione mentale si traghetta a quella esperienziale. Quella che si vive sulla propria “pelle”. Se poi dalla “pelle” raggiunge il cuore, o meglio, la coscienza, siamo di fronte alla costruzione, sempre in movimento e in crescita, del sapere. Alla fine quest’ultimo, rivestito dalla luce della fede, diventa “sapienza”. Un incrocio di innesti, con tempi mai calcolabili o pianificabili che ha come tappa conclusiva “l’incarnazione” reale del significato della parola. Una comprensione “esistenziale”. 

Oggi celebreremo la terza domenica di Avvento, la domenica della gioia. Abbiamo tanto parlato della gioia del cristiano. L’abbiamo sempre posta come una condizione necessaria a una testimonianza di fede che possa lasciare il segno nella vita degli altri. L’abbiamo considerata come il primo gradino da salire per attivare un’evangelizzazione che desse voce alla speranza. Purtroppo forse l’abbiamo circoscritta al materiale, al temporale, all’effimero. Come il battito di ali di una mosca. L’abbiamo resa svolazzante. L’abbiamo resa liquida, come la nostra società che non sa più distinguere l’eleganza e l’innocenza di un sorriso, dalla grassa e sguaiata risata. L’abbiamo “de-evangelizzata”. Forse anche inconsapevolmente. Per quell’insostenibile leggerezza che guida il nostro parlare, il nostro abitare i social, il nostro pensare e comunicare. Leggerezza che fa da argine al _modus vivendi_ dello “stare pandemico” della nostra fede nella società odierna. Quest’ultima con i suoi repentini e continui cambiamenti ha anche inquinato il significato della gioia. Quella evangelica in special modo. Ecco perché per celebrare con “sapienza” la terza domenica di avvento dovremmo prima di tutto chiederci cosa sia la gioia. Quella che dalla mente passa alla “pelle”, al cuore, alla coscienza. Quella che dona “esistenza” alla mia fede perché generata dalla Parola. Letta, studiata, ascoltata, meditata. Pregata. La prima fonte della gioia del cristiano è la Parola. I primi educatori e i testimoni della gioia ”vera” sono quanti la leggono, l’ascoltano, la studiano, la meditano, la pregano. La spezzano, senza distinzione alcuna, “sull’altare” della propria e altrui vita e della storia del mondo. Come il pane. Con l’accortezza meticolosissima che non se ne perda neanche una briciola. Ogni briciola è un visibile frammento di eternità che di posa sulle nostre mani, di vita divina che darà come suo frutto la gioia. Briciole che, col lievito della fede, diventeranno “pagnotte” di grazia. Di pace. Di gioia. Questa “pagnotta” l’ho masticata, l’ho mangiata. È stata mio cibo nelle ore più buie e tristi di tutta la mia esistenza. Quelle della morte improvvisa di mio fratello. Per un maledetto infarto acuto al miocardio. Appresa la tragica notizia chiamai subito i monaci di Montesole. Erano a pochi chilometri da Castiglione dei Pepoli dove il cuore di Giacomo aveva cessato di battere. Chiesi fraterno aiuto a loro per tutto. Chiesi a loro di dare l’ultima carezza al suo volto che continuava a sorridere. Io ero impossibilitato a partire. Dovevo stare accanto a mamma. A papà inchiodato su una sedia per un ictus. I monaci, dopo avere accolto e raccolto il grido delle mie lacrime, mi dissero che avrebbero fatto suonare “a festa “le campane del loro conventino. Ma anche quelle della chiesa di Castiglione. Indossarono per me e la mia famiglia il grembiule del servizio della consolazione della fede. Lo fecero col dono delicato e sapiente di questa “pagnotta” dove ogni briciola era un vocabolo raccolto dal lessico “gioioso” della Parola di Vita. Così mi fu annunciato che la mia casa era stata “visitata” da Dio. Il mio pianto così provava a dare voce anche a quell’annuncio, senza che io ne fossi pienamente consapevole. Era accompagnato dal suono di quelle campane “ in festa” che da Montesole e Castiglione arrivava anche a Collesano. Tra le mura della mia casa. Tra le pareti del mio cuore di cristiano che fin da bambino aveva professato la sua fede nella Resurrezione e nella vita eterna. Era come se ogni tocco di quelle campane portasse con se e incidesse sul pericardio della mia fede, del mio battesimo e del mio ministero presbiterale, tanti versetti, tante” briciole” di quella Parola che avevo per anni spezzato. Una, a mo’ di esempio, tra tutte: “Questa è la volontà di Dio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna. Quel pomeriggio del 21 ottobre del 2009 era come se mi trovassi a celebrare la prima domenica di avvento della mia vita. Dove “la gioia” ha abitato il mio cuore. Ho provato a raccontarla. A distanza di tanti anni. Con una “comprensione esistenziale”. Anche perché da quel giorno il mio tempo di Avvento continua. Sono in attesa della venuta del Signore. Indossando “i paramenti” dal colore rosaceo. Tra i colori liturgici resta il mio preferito. Perché possiede il segno della gioia.