Oggi celebreremo la festa della Sacra Famiglia. Tante parrocchie confezioneranno molteplici e rispettabilissime iniziative previste per l’occasione. Tra queste, qualche immancabile novena, “l’assembramento” cronologico degli sposi con i loro anniversari di matrimonio, la benedizione delle famiglie con a conclusione un “dolce” momento di fraternità. O meglio, l’apericena per chi è attento al lifting lessicale.

Parleremo della bellezza del sacramento del matrimonio. Della famiglia come piccola chiesa domestica. È unanime e santo il desiderio di fare in modo che famiglia e matrimonio restino i “pilastri indistruttibili” per il cammino di quei cristiani che hanno scelto di accogliere l’altro – l’altra come un dono da custodire per tutti i giorni della vita. Che continuino a rimanere quelle “alte istituzioni” attorno alle quali ruota una luminosa costellazione di valori umani e cristiani che non conosce la “leggerezza” dell’utopia ma la “consistenza” del laborioso travaglio che può condurre alla santità.

Alla vigilia di una festa tutta dedicata alla famiglia e alla sua ineccepibile bellezza, il Dio della storia ci chiede anche di entrare nella “Vita della Storia” e nelle “storie di vita” di una società definita da alcuni post-familiare. Di dialogare con la generazione dell’oggi. Di farlo come Chiesa. Perché una Chiesa che non parla alle nuove generazioni è una Chiesa che non parla a nessuno. Una Chiesa senza grembo materno.

Già nel 2020 Il Rapporto Internazionale Studi Famiglia aveva come titolo: “La famiglia nella società post- familiare”. Un titolo che non contiene esclusivamente una sorta di incrocio “incidentato” di soli sostantivi, ma che fotografa da vicino e nei dettagli come sia sempre acceso “il verde” dell’individualismo nel semaforo che regola l’accesso alle vie delle relazioni sponsali e familiari.

L’individualismo ha vinto sia sulla promessa del legame che sulla tenuta della relazione coniugale e anche “con-genitoriale”. Un titolo “a effetto” che ci esortava e ci invita a prendere consapevolezza di come la nostra società sarà sempre meno “familiare”. Almeno secondo quei moduli e parametri che l’hanno definita nel tempo. Nel passato prossimo.

Purtroppo, ai nostri giorni diverse famiglie vivono un inarrestabile processo di frammentazione. Si scompongono e ricompongono sulla base di dinamiche e tessuti relazionali che hanno abbandonato la struttura sociale della famiglia come intreccio tra relazione sponsale e genitoriale. Rotture precedute spesso da prolungati e tediosi mutismi. Con lunghe “degenze” in stanze singole che danno voce all’agonizzante esperienza del vivere separati in casa.

A tal proposito, ricordo ancora quella tenera domanda di un bambino sul perché il papà dormisse la sera sul divano e nel garage e non nel letto con mamma. Sono esperienze delle quali, a volte, i bambini odono i drammatici “rantoli”. Rotture che sovente conoscono il loro ultimo “faccia a faccia” tra gli schermi del mondo virtuale dei social, nella trafficata “digitalizzazione” delle relazioni. Gli ultimi “contatti” si consumano in Rete. Con messaggi che poi saranno cestinati. Definitivamente.

Oggi si è coppia senza varcare la soglia degli impegni matrimoniali. Come si può essere genitori anche senza avere generato figli con rapporti naturali, ma con l’uso delle molteplici e costosissime tecnologie riproduttive. La famiglia “classica”, quella costituita da padre, madre, figli naturali o adottivi rimane una delle tante possibilità di chiamarsi famiglia. Aleggia la tendenza, sebbene ansimante, a fare coincidere la famiglia con il privato delle relazioni affettive. La funzione sociale del nucleo familiare ha avuto un brusco arresto. Con il suo violento stridio di freni.

Si afferma che la famiglia stia vivendo il tempo dell’evaporazione. Con la pandemia si è standardizzata l’espressione “io resto a casa” oscurando o debellando “l’io resto in famiglia”. Appare chiaro come, nell’attuale contesto storico-sociale e culturale, la famiglia non sia più l’unico contenitore, o meglio, per usare un’immagine evangelica, l’unico “otre” dove versare il vino della gioia.

Dobbiamo trovare il coraggio evangelico di osare. Di provare a vedere “evangelicamente” in ogni contesto umano dove abita la comunione, la convivenza, la relazione, l’affettività e che non è più famiglia, un possibile otre nuovo. Degli otri nuovi potrebbero essere le piccole e fragili “Betlemme ribaltate” del nostro tempo. Dobbiamo raggiungerle. Con appositi e speciali percorsi pastorali che riescano a fare udire la voce della Paternità di Dio, a farne vedere il volto. Sono abitate da figli di Dio.

Quei figli che, da una fiorita primavera del loro amore, sono approdati al triste e scolorito autunno della paralisi relazionale. Fino a giungere al freddo e gelido inverno che ne ha bruciato gemme, fiori e teneri virgulti. Pensare a una pastorale non da rattoppo, non da mordi e fuggi, non da sanatorie canoniche anche a costo zero. Dobbiamo entrare in queste “grotte”, nella storia di queste vite.

Non possiamo fermarci a guardarle da lontano. Possibilmente con le posture “quaresimali” dell’amarezza, della sfiducia, del rimpianto. O con quelle da gelide e fredde statue cimiteriali tipiche degli esattori di dottrine solo umane. Il Dio della storia, che è anche il Padre misericordioso, ci chiede di correre verso di loro. Di raggiungerle. Di curare ferite profonde e cicatrici sanguinanti di quanti le abitano. Perché il violento terremoto dell’infedeltà con le sue ripetute scosse sismiche ha raso al suolo non case di pietra e di mattoni, ma cuori di vite da ricostruire.

Siamo chiamati a una corsa da farsi “in fretta” col passo di Maria. Quello del servizio. Della prossimità. Della cura con la carezza della compassione. Per “adagiare” nella mangiatoia delle tante “Betlemme rovesciate” la Parola di Dio e la Parola del Signore. Bisogna ripartire dalla Parola. Ma non basta. Dobbiamo guardare al domani. Alle “Betlemme del domani“. Alle future famiglie.

Attorno a noi, come in qualche occasione ci ha ricordato il nostro Vescovo Giuseppe, c’è fame e sete di famiglia. I nostri giovani hanno fame di famiglia. È nell’elenco dei loro sogni e dei loro bisogni primari. Come continuano ad averla quanti sono soli, quanti sono stati abbandonati.

Bisogna pensare a veri e propri corsi biblici. Incontri con la Parola. Pregati e dialogati. Imbandire la mensa della Parola per tutti. Con la “bianca” tovaglia dell’accoglienza. Per le Betlemme di domani, per quelle “in salute”, per quelle “rovesciate”, per quelle da ricostruire.

I corsi in preparazione al matrimonio, per quanto curati e variegati, presentano qualche limite. Mi fanno pensare ai nostri tamponi rapidi che dicono positività o negatività al Coronavirus. Un lasciapassare “alla celebrazione del sacramento”. Quel sacramento che va celebrato per tutta la vita. Nella solennità della quotidianità. Quella che è stata rubata alla vita. Alle famiglie. Quella che Maria, Giuseppe e il Bambino hanno saputo custodire. Perché custodi della Parola.

Che ritorni nelle “tante” Betlemme del nostro tempo il profumo del Pane. Il profumo soave della Parola. Che siano le case del “Pane”. Come ce lo ricorda l’etimologia stessa del minuscolo villaggio della Palestina. È una via da attraversare che può saziare “la fame” di famiglia che forse viene poco registrata nei campioni di ricerca e di studio sulla famiglia. Ricerche che sono sempre in “divenire”. Mutevoli. Ecco perché preferisco parlare di una società “meno familiare”.

Lasciamo aperta la porta alla Speranza. Che nella Parola trova sempre il Suo fondamento.