Saggi maestri ci hanno insegnato che per essere concreti “facitori” della Speranza occorre partire dal porsi delle domande, senza scivolare mai nel tetro pessimismo. Senza mai lasciarsi bagnare dalle avvolgenti e coinvolgenti onde dello scoraggiamento. Perché, come affermava Sant’ Ignazio di Loyola: «Ogni scoraggiamento viene dal demonio». E se, l’icona per eccellenza della Speranza sono i bambini, dobbiamo iniziare il nostro percorso di riflessione a partire da loro.

Chiediamoci, che cosa dobbiamo donare ai bambini in questo “difficile” tempo storico per una sana e fruttuosa educazione cristiana. Che cosa deve essere prioritario nel loro percorso di formazione? Insomma, cosa dare loro da mangiare? A pensarci bene, infatti, i bambini potrebbero essere la nostra minoranza creativa capace di fare rinascere la nostra esperienza di popolo in cammino. Tuttavia, anche la Speranza ha bisogno del suo Pane per non morire di fame. Ultimamente dei “bravi” nutrizionisti pastorali le hanno imposto una ferrea dieta. Per conferirle il look della “bella” velina. Questo è uno dei frutti di quegli immediati e quasi “naturali” processi di osmosi o mimetizzazione con le mode del vivere sociale quotidiano. Mode il cui peso si deposita anche sulle bilance del pensare e agire pastorale.

Un “attento” percorso dietetico che ha sostituito la fede, come madre della Speranza, con “madre” apparenza. Quest’ultima, a sua volta, resta sottomessa ad una cattiva matrigna chiamata vulnerabilità. Essa, approfittando delle tante fragilità e ferite aperte, si è estesa a macchia d’olio, infettando l’esistenza, la società, la spiritualità, la politica, la morale. Le categorie della vulnerabilità e dell’apparenza hanno favorito un continuo processo di “indebolimento” della Speranza. Così la speranza cristiana è stata asfaltata dalla speranza “loquace”.

Alla Speranza nutrita dalla Parola si è imposta quella che divora solo parole e che poco conosce il traguardo dell’azione. Possibilmente ci sfugge di mano che i bambini non solo sono i primi maestri della speranza, ma sono coloro che masticano e digeriscono subito il pane che la nutre: la Parola di Dio e del Signore. Dobbiamo imparare a lasciarci evangelizzare dai bambini. Ai bambini dobbiamo dare da mangiare prima di tutto la Parola. Mettere il Vangelo sulle loro mani. Dobbiamo farli incontrare con la Parola. Farli pregare e dialogare con il Pane della Speranza. Almeno settimanalmente. Costruire con loro delle ”piccole” omelie dialogate. Ne avremo delle sapienti sorprese.

Quello che esce dalla loro bocca può stordirci, portarci a riflessioni mai preventivate. Noi adulti sappiamo tessere sulla Parola anche chiacchiere autoreferenziali, chiacchiericci macchiati di moralismo, stendere vellutati tappeti di erudizione esegetica, ma non sappiamo farne lo strumento che afferma la potenza di Dio. In questo i nostri maestri sono e restano i bambini. È questa una verità contenuta in un versetto del salmo 8: «Con la bocca dei bambini e dei lattanti, affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli». È una verità che si è oscurata . Questa è l’ecclissi pastorale del nostro tempo.

Ci siamo impantanati attorno ad un iter catechistico sempre più povero di “emoglobina” evangelica. I bambini hanno fame di Parola e sete di Chiesa. A noi il compito di nutrire il corpo della loro fede a partire dalla Parola che fornirà globuli rossi, piastrine e sideremia e che non renderà mai pallido o anemico il volto del loro futuro. Del futuro della Chiesa. I bambini sono il fiato di Dio nel mondo.

Se oggi vogliamo cristiani impastati di Speranza dobbiamo attingere alla Parola e ai bambini. Alle parole che escono dalla loro bocca. Ne ho avuto una conferma luminosa domenica. Ho chiesto loro se sapessero chi fosse Biagio Conte. Dono a voi la risposta di un bambino: «Colui che si è fatto povero per amore di Gesù». Tra le centinaia lette o ascoltate, è la più bella, la più vera. Fatta di Vangelo. Quella che avrà reso ancora più sorridente il volto di Biagio. Che fratello Biagio sia per noi non il “santino” da far girare sui social, ma colui che è rimasto ”bambino” perché ha sempre nutrito la Speranza e la sua missione col Pane della Parola che genera la Carità . È stato colui che ha preso le distanze dalla speranza “loquace” che da voce solo all’ amen della rassegnazione. Ha scelto la Speranza Cristiana che porta con se il canto eterno dell’Alleluia.

Nutriamoci del Pane della Parola, “facciamoci bambini”. Accantoniamo le diete e prendiamo le distanze da quella catena di “integratori” alimentari non notificati dal ministero “evangelico” della salute pastorale.