Mio caro padre Puglisi,

sono certo che anche in Paradiso siano già pervenute copie della bellissima lettera di papa Francesco, per ricordare i 30 anni della tua nascita al cielo. A voi tutti cittadini di “lassù” è stata inoltrata per conoscenza, con la raccomandazione di pregare affinchè, per noi pastori “di quaggiù”, le sue esortazioni diventino il capitale d’investimento per una futura identità presbiterale, che sappia mangiare e digerire il “duro” pane della sinodalità. Anche perché i diretti destinatari, pensa un po’, siamo proprio noi preti, o meglio, i pastori di tutta la Sicilia. Per il papa tu sei: «figlio e pastore dell’amata Chiesa palermitana e dell’intera Sicilia». Figlio e pastore: un binomio che in te dà voce e volto ad una sola identità, tutta evangelica, che il papa ti ha cucito addosso. Forse perché informato della tua allergia a ogni “signorile” titolo canonico.

icordandoci così saggiamente l’alfa e l’omega del tuo battesimo e del tuo martirio. Sono convinto che, se ne avesse utilizzato qualcuno, seppure solo per pochi minuti, dal tuo sorriso si sarebbe offuscata “quella luce gentile che scava dentro e rischiara il cuore”. Quel sorriso che, talvolta, ho visto scomparire dalle tue labbra. Accadeva quando, nello spezzare la Parola, col tuo silenzio che si colorava di rosso sulle tue guance, ci facevi intuire la distanza tra il Vangelo e le nostre scelte di vita. La nostra “leggerezza”, ogni nostro mordi e fuggi di fronte alla Parola e alla “Vita” era il tuo “martirio bianco”. Quello che rendeva “pallido” il tuo sorriso di sempre. Al suo posto, a scavare e raschiare i nostri cuori, vi era il tono della tua voce: un sottile pungolo diamantato, ma sempre accompagnato dalla carezza benedicente della compassione. Questa carezza l’ho ricevuta anche io. L’ho “mangiata”, me ne sono nutrito e mi ha fatto crescere. Proprio in quel pomeriggio del 17 settembre 1993, quando a Palermo si celebravano le tue esequie. Non mi fu possibile parteciparvi. L’ubbidienza mi chiese di rimanere a Cefalù, in cattedrale, per un “pontificale”. Inoltre, se la memoria non mi inganna, in quella celebrazione dovetti assolvere, come servizio liturgico, quello di reggere il pastorale. Per me, che ho sempre amato la libertà di movimento, un mero e arduo esercizio di pazienza, quella consegna di rimanere all’interno del perimetro di ben 4 mattoni di quel sacro pavimento. E così mi avevi fatto dono di una briciola di quel “martirio bianco”, che aveva fatto lievitare il tuo ministero fino al martirio “rosso”. La tua carezza benedicente raggiunse il mio cuore di seminarista con il tocco della compassione e il tuo sorriso gentile: l’anima visibile del tuo servizio presbiterale. Quel sorriso che non hai perso di fronte al tuo assassino. È stato il tuo “Amen” finale al Vangelo, divenuto la preghiera quotidiana del tuo ministero. Quella preghiera che ti ha rivestito di profezia e che, prima ancora, ti ha permesso di essere l’uomo che possedeva “sapienza concreta e profonda”. Non sei riuscito a trattenerla per te. Era l’unico patrimonio che possedevi, l’hai donata tutta, l’hai lasciata in eredità al tuo Caino con e in quel: «Me lo aspettavo». È stato il tuo ultimo testamento d’amore, sigillato dalla firma indelebile del tuo sorriso.

Francesco nella sua missiva ci invita a coltivare un’opzione preferenziale verso i poveri. «Sono volti che ci interrogano e che ci orientano alla profezia». Io il volto del povero l’ho contemplato anche nel “volto” del tuo corpo e nel passo mite e umile della tua evangelica “contemplazione” pastorale. Ricordo il tuo vestire sobrio, “pulito” e dignitoso. Nel tuo armadio dovevano starci poche camicie, alcuni pantaloni; possibilmente nessun cappotto: non te ne ho mai visto indossare; preferivi i giubottini blu, ne avevi uno per l’estate e uno per l’inverno. A volte, questi ultimi, a furia di essere stati lavati e rilavati, si erano “leggermente” rimpiccioliti, ma continuavi a usarli. Ai tuoi polsi niente bracciali d’oro, di legno con madonnine e santi o braccialetti di pezza con nodi da sciogliere. Sulle tue dita nessun anello o coroncina.

ualche anno fa ho letto un libro Il vestito parla, di Nicola Squicciarino. Per l’autore il nostro abbigliamento è icona della vita interiore, della nostra “anima”. Il tuo, caro don, mi ricorda quel «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei Cieli». Mi rimanda a quella libertà di chi sa rimanere fedele alla Parola e conosce la Verità. Insegnaci, caro padre, ad amare e difendere i poveri dismettendo nella quotidianità, come tu hai fatto, “gli abiti” del perbenismo ecclesiale e pastorale, per indossare i paramenti del pastore. Le tue foto più belle sono quelle con stola e casula. In esse il tuo viso irradia la luce della tua vita battesimale in cammino, schiodata dalla croce della rassegnazione e in cerca della Luce del Risorto.

’epistola papale sembra essere tutta attraversata dal tuo sangue versato, per avere deciso di andare «fino in fondo nell’amore». Francesco sembra volerci ricordare che per celebrare nell’oggi il tuo martirio, serva «il camminare insieme, il sentirsi corpo, membra unite». «Don Pino si è battuto perché nessuno si sentisse solo di fronte alla sfida del degrado e dei poteri occulti della criminalità». Lo ha fatto non solo per la sua Brancaccio, la città di Palermo, la chiesa di Palermo, la nostra isola. Ma lo ha fatto come discepolo di Cristo. Come quel profeta che oggi, a trent’anni dal suo martirio, ci addita nel sinodale discernimento evangelico, la via per donare alla chiesa e al mondo, il sorriso dell’Evangelo.