Durante le confessioni per fra’ Umile l’orologio non aveva più le sue lancette. Cadevano giù con i loro battiti: il kronos cedeva il passo al kairos. Improvvisamente e invisibilmente. C’era un gesto che dava inizio alla celebrazione del sacramento della riconciliazione. Con le sue mani tremolanti, il religioso poneva sotto lo sguardo di ogni penitente un piccolo Crocifisso, senza pronunciare parola alcuna e con una magistrale delicatezza. Racchiudeva l’invito a lasciarsi guardare dal Suo Amore e, al contempo, a dilatare la pupilla degli occhi all’arrivo trasfigurante della luce della Sua misericordia; a non abbassare palpebre e ciglia di fronte alla gratuità del Suo perdono. E di volti trasfigurati uscire dalle buie gallerie del peccato ne ho visti tanti. Tra questi vi era anche il mio. Erano le 16:55 del giovedi santo del 1985.

Dopo la Pasqua di quell’anno la presenza di padre Umile e di tantissimi altri frati riempiva e animava il calendario pastorale della vita della comunità. Con incontri attesi e partecipati soprattutto per giovani. Poi ritiri, veglie, centri di ascolto, tavole rotonde, qualche piccola missione popolare. Divennero amici di famiglia. Padri e fratelli maggiori. A breve arrivarono anche le sorelle minori di San Francesco. Delle donne che, affascinate dall’ideale francescano, abbracciarono in tutto e per tutto lo stile di vita dei frati minori rinnovati. Proprio alle sorelle ci lega una breve ma preziosa avventura. Quella che ci ha permesso di abbracciare i poveri e di misurarci con la prima vera esperienza di carità. Non da scrivania, ma da strada o ancor meglio da mare.

Siamo nella primavera del 1991. Le coste della Sicilia si trasformano in non programmati grembi materni. Accolgono gli oceanici sbarchi di migliaia di fratelli albanesi. Assistiamo attoniti a una drammatica emergenza umanitaria senza precedenti. La spiaggia di Buonfornello diventa subito un grande ospedale da campo. Infatti, stavolta non è gremita da bagnanti in bikini e slip sotto i colorati ombrelloni ma da uomini, donne, da tantissimi bambini con le faccine sporche, i vestiti ridotti a strofinacci per pulizie, le testoline invase dai pidocchi e dai grappoli delle loro micro bianche uova: si erano depositate fin dietro le orecchie e sulle sopracciglia. Ricordo i nasini riempiti di muco secco, come le orecchie piene di giallastro cerume condensato. Dettagli che restano scritti tra le pagine di quell’antologia senza fine che raccoglie tutte le beatitudini evangeliche toccate con gli occhi delle mani nella storia della vita dei poveri e degli ultimi. Sulla sabbia del lido vennero piazzate tantissime roulottes, una appicciata all’altra. In una di queste roulotte si stabilirono, alternandosi di volta in volta, due sorelle. Divennero O.S.S., infermiere, baby sitter, assistenti sociali. Restarono le spose di Cristo. Per esplicita e ferrea disposizione di fra’ Umile. Quando fu richiesta la loro presenza a Buonfornello, il religioso – che le seguiva nel cammino spirituale – disse: «Possono andare, purchè con loro ci sia lo Sposo». Infatti, nella loro roulotte vi era un tabernacolo con Gesù. In quell’ospedale da campo vi era la piccola grotta di Betlemme. Gesù continuava, a distanza di migliaia di anni, a vivere la sua esperienza di profugo, di immigrato, di clandestino.

E noi la Sua voce, la Sua Parola la sentivamo. Non tra la scia del profumo di raffinatissimi incensi, l’odore gradevole di quelle cere per pavimenti che danno lustro al decoro e alla pulizia della casa del Signore. Ma tra gli acidi odori del sudore di corpi ammassati, stipati, arsi dalla fatica di una via crucis ancora senza resurrezione. Non dai microfoni dei maestosi amboni delle chiese con le solenni proclamazioni latineggianti di presbiteri e diaconi, ma dalla tenera voce degli esiliati accompagnata dai primi sorrisi di gratitudine che fulminavano i nostri cuori. C’era un sorriso e un grazie per ogni cosa: per un bicchiere d’acqua, un piatto di pasta, un sapone, un’asciugamani, una camicia, un paio di scarpe, una sigaretta. Un grazie che, dopo qualche giorno, aveva acchiappato la cadenza siciliana. Quel grazie, cucito dal sorriso sulle labbra, dava voce a quelle parole benedicenti di Gesù che vibravano e traboccavano all’unisono dai loro cuori ai nostri: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, sete e mi avete dato da bere, straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito…».

Capimmo che nel campo di accoglienza di Buonfornello non vi stava solo il piccolo ostensorio che le suore avevano portato dove esporre Gesù per l’appuntamento quotidiano dell’adorazione eucaristica notturna. Vi erano, invece, come avrebbe detto don Tonino Bello, tanti “ostensori rovesciati”. Infatti, lo era ogni fratello albanese. Capimmo pure che ognuna di quelle roulotte era un “tabernacolo rovesciato”. Le sorelle minori con la trasferta dal conventino di Tusa al “campo degli ostensori e dei tabernacoli rovesciati” ci insegnavano che il dramma del popolo albanese andava capito, mangiato, masticato. Come mangiamo e mastichiamo il Corpo di Cristo nelle nostre celebrazioni eucaristiche. Ci insegnavano che la loro adorazione allo “Sposo” non era il residuo della tenerezza della celebrazione del memoriale della morte e resurrezione del Cristo, ma la fonte, la via dell’adorazione, fatta servizio, al corpo e al sangue dei fratelli albanesi che cercavano accoglienza e riscatto. Abbiamo vissuto l’esperienza di un cristianesimo vivo, non ridotto a mera religione. Per alcuni giorni siamo stati nomadi dello spirito con le nostre salite e discese da Collesano a Bonfornello, da Bonfornello a Tusa. Da Tusa all’ospedale dei bambini di Palermo dove Suor Serena si fermò per qualche settimana con una bambina ammalata. Con i nostri risparmi, presi dagli storici salvadanai, facevamo il pieno di benzina alla macchina. Con le offerte di tanti fedeli ne riempivamo il cofano di tutto ciò che fosse utile per immediata assistenza. Con alcuni di loro organizzammo qualche cena. Trovammo qualche casa in paese che li ospitasse. Abbiamo spezzato il pane della carità. Insieme e grazie ai fratelli albanesi e le sorelle minori abbiamo sperimentato che il cristianesimo non è la religione dal cielo vuoto. Ai piedi degli scomodi tabernacoli della miseria e del bisogno attraverso il grido del povero la voce di Dio continuava a guidare il mio cammino verso il silenzio dell’eremo. Ne parleremo più avanti.